Branzini e orate, speriamo, ci perdoneranno. Ma noi tifiamo per le acciughe di Monterosso. No, non è un problema di sapori. Ma è una scelta di vita. Che quale altro pesce ha (finora) rifiutato il diktat modaiolo di riso e sushi ed è rimasto testardamente immerso nel sale? E ancora quanti sono i pesci che alle lusinghe dell’allevamento hanno sempre replicato con lo sberleffo e continuano ad obbligare i pescatori a coraggiose levatacce nel cuore della notte? Pochi, pochissimi. E di questi le acciughe sono forse l’alfiere. Se a questo si aggiunge che persino il leggendario gastronomo romano Marco Gavio Apicio, qualcosa come mezzo secolo prima di Cristo, le citava con l’acquolina e si inventava la ricetta di una “terrina di acciughe senza acciughe” pare inutile andare oltre. E se le orate si offenderanno, pazienza.
Anche perché le acciughe di Monterosso valgono un viaggio. E qui, cuore di Liguria, lo sanno bene: e se per secoli l’hanno chiamata “pan do mâ” (il pane del mare) un motivo ci sarà. Qui, e solo qui, nasce infatti l’acciuga di Monterosso. Che come è logico per un piccolo oggetto di culto goloso ha anche una casa e un “compleanno“. In via Servano, subito dietro il Comune del piccolo centro (il più grande e attrezzato delle Cinque Terre), si trova il Centro di salagione dell’acciughe dove si ripete un rito antico. Che ha il suo momento topico tra il 24 e il 29 di giugno. Giorni magici e benedetti, nientemeno che, da San Giovanni e San Pietro.

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Le acciughe di Monterosso, la beffa di una lampada

In quelle notti, la prassi e la tradizione vogliono infatti che le acciughe di Monterosso, migranti instancabili, dopo un viaggio lungo mesi che le porta a pinneggiare attraverso il Mediterraneo arrivino davanti alle coste di Monterosso. E per i pochi pescatori rimasti inizia la festa. Grazie alla beffa delle lampare che illuminano il mare, promettendo nuvole truffaldine di cibo ai pesci, le acciughe vengono intrappolate nelle reti e trasportate a terra dove inizia una lavorazione che se non è antica come Apicio probabilmente poco ci manca. Dopo la decapitazione e l’eviscerazione (e tutto si fa ancora a mano), le acciughe di Monterosso finiscono a strati in barili di legno o vasi di terracotta, dove vengono immersi di nuovo. Ma questa volta nel sale che viene pressato con un peso che le terrà a bada per almeno un mese. Prima di entrare in commercio ( e provarle con pane e burro o con una tiepida polenta vale più di tante parole).
Molto più rapida l’attesa invece per i pesci che vengono cucinati freschi e che, vuole la tradizione, sono diversi da quelli pescati altrove. Chè qui, sarà la salinità del mare o il periodo dell’anno, risultano saporiti ma nello stesso tempo più delicati.
Uno dei ristoratori di punta della zona, Maurizio Bordoni, nel suo celebrato Cappun Magru a Groppo di Manarola (va bene, non è Monterosso ma saranno al massimo 10 km) lo sostiene da tempo e le propone sempre. Ed è un vero piacere vederle spodestare i branzini e le orate. Un piacere semplice per di più: visto che “la morte” dell’acciuga è a crudo, con olio (ligure, non serve dirlo) e limone e, se proprio si vuole esagerare, si osi un nonnulla di aglio e prezzemolo.

Qui, e non solo qui, per turisti e ghiottoni, la spiaggia offre il riposo più banale. Ma a volere abbandonare l’ipnosi della sdraio e cercare qualcosa di diverso si possono risalire i sentieri e le gradinate di pietra della costa, sfiorare le viti da cui nasce lo Sciacchetrà, il rarissimo e ammaliante vino dolce “rinforzato”, camminare tra i pruni e gli sterpi di cui scrisse il poeta e, alla sera, scendere nei due o tre locali del paese (da non perdere il Ciliegio, abbarbicato in alto, ben sopra il mare che luccica come nelle canzoni) e passare in rassegna i molti volti di questi pesci poveri ma buoni.
Per i giorni poi della “Sagra dell’acciuga salata”, alla metà di settembre, i carruggi del paese profumano di pesce, aria di mare e sentori di vermentino. Ed ecco perché chi si trovi in questi luoghi comincerà a fare il tifo con noi che per le acciughe di Monterosso di cui non vorremmo buttare nulla.  E alla fine viene in mente il ligure De Andrè che raccontava come le acciughe facciano il pallone. “Se non butti la rete non te ne resta una” cantava. Dopo averle mangiate è facile capire perché.

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