C’è isola e isola. C’è quella che non c’è e quella che al suo interno ne ha una seconda. Ovvero l’isola dell’isola. Sembra una stravaganza ma esiste e non per forza deve essere circondata del tutto dal mare. Ne basta una sola parte se c’è dell’altro, come nel caso di Alghero. Che è un’isola all’interno della Sardegna. Non ci credete? Studiate la lingua, analizzate la storia, ascoltate quello che dice la gente. E soprattutto guardate nel piatto. Con un viaggio ad Alghero tra mare, spiagge e dialetto catalano.
“Non potrebbe essere altrimenti: noi non siamo sardi. Siamo algheresi. E’ un’altra cosa”, scandiscono con fierezza gli abitanti dell’Alguer Vella, la parte che più isola nell’isola non si può. Che si vanta di parlare la lingua della Spagna orientale, di battezzare le strade “carrer” come a in Catalogna e che discute appassionata della vera ricetta del Menjar Blanc, il piatto più tipico e tradizionale. Inutile dire che per trovarlo identico si deve traversare tutto il Mare Nostrum. Puntando la prua a ovest.
Così non resta che cominciare a camminare per le strade avviluppate ancora nelle vecchie mura e provare a parlare con la gente. Magari con gli anziani che smettono di fare finta di litigare in algherese e si concedono ai foresti impiccioni ribadendo che c’è un “Noi” e “Loro”. E loro, ovviamente, sono i sardi, fratelli raccontati, con compiacimento, al massimo come cugini. Parenti acquisiti cui concedere una cauta confidenza.
Alghero tra mare, spiagge e dialetto catalano. E una lunga storia
La riprova viene proprio dalle vecchie mura che ora sono una attrazione turistica. Un tempo erano un baluardo non rivolto al mare. Ma alla terra. “Qui, per quasi quattrocento anni i cannoni erano puntati verso l’entroterra. – prosegue uno degli anziani. – E alla sera, una voce gridava prima di serrare i portoni: “chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori”. Appunto: noi dentro e loro fuori.
Eppure da qui, lo sancisce la storia, ne sono passate di genti. E a mescolarsi senza fatica dovrebbero essere abituati. A partire dai tempi dei Doria – più genovesi che mai – che fortificarono un villaggio poi conteso dai pisani e infine dagli aragonesi che, vittoriosi, sbarcarono i propri fidati coloni trapiantati, più o meno con le buone, dalla penisola iberica. Fino al 1720 fu come essere a Barcellona.
Alghero tra mare, spiagge e dialetto catalano. E l’aragosta
“Insomma, siamo stati terra d’approdo, quindi una città aperta”, raccontano gli storici. Mescolando ricette e aneddoti del passato. “Da Napoli e da Ponza arrivarono i pescatori di corallo, nella bonifiche intorno alla città fascista di Fertilia i ferraresi sradicati dal regime, nelle case svuotate dalla guerra i profughi di Dalmazia e Istria”. E intanto nei vicoli di Alghero? Si continuavano tranquillamente a mangiare i bogamarì, ovvero i ricci o l’aragosta alla faccia delle tradizioni di una terra che si è sempre fatta vanto di prediligere carni di ovino, porcello e formaggi e che dal mare si è sempre guardato. Perché dal mare, almeno per loro – i sardi, quelli che stanno a Cagliari -, non certo per gli algheresi, arrivano solo pirati, disgrazie e brutte notizie.
Lo stesso mare che invece, splendido, ha regalato ad Alghero tra mare, spiagge e dialetto catalano la sua seconda vita dopo quella vista dalle navi: quella delle spiagge.
Qui, ben prima che la Costa Smeralda nascesse nelle idee di un visionario il turismo portava ricchezza. Negli anni ’50, epoca eroica, inglesi e scandinavi in cerca di sole e suggestioni mediterranee piombavano qui a frotte. E la città era chiamata la porta d’oro della Sardegna. Poi, come altrove, arrivasse la crisi che solo ora, grazie almeno alla comodità low cost dei voli, si comincia ad affievolire. Anche perché la malìà di questo pezzo di costa, per chilometri disabitata e silenziosa resta la stessa. Sulle vicine spiagge delle Bombarde e del Lazzaretto la gente stesa si arrostisce al sole di inizio estate. E poco più in la le oniriche architetture di Fertilia raccontano di uno strano sogno. Come se fosse possibile obbligare gli abitanti di una isola a respirare come gente di terra e di pianura.
Ma poi basta poco: aspettare il tramonto sui bastioni Magellano o infilarsi nelle stradine dell’Alguer Vella, la Alghero vecchia, per riscoprire il vero ritmo della città. Durante il giorno, quando il sole fa brillare la cupola colorata di San Michele, nelle strade potrete farvi accompagnare solo il rumore dei vostri passi sull’acciottolato ma alla sera ad ogni angolo un locale, una insegna, qualche tavolino, raccontano che i tempi delle mura chiuse e del “chi è fuori è fuori” sono tramontati da tempo.
Alghero tra mare, spiagge e dialetto catalano
Così, prima di andare a zonzo cercando il posto giusto dove assaggiare una agliata o un piatto di linguine con il pesce, provate a uscire qualche chilometro verso nord.
Sfiorete le spiagge cittadine, infilate di alberghi e simmetrie di palme allineate sulla passeggiata e magari sentirete nel naso l’afrore delle alghe che, scherzi della tradizione, si dice abbiano dato il nome alla città e che, d’inverno, sono le sole testarde frequentatrici della sabbia senza ombrelloni. Infine, arrivati quasi a Fertilia, fermatevi e giratevi a guardare l’Alguer dipinta dai raggi caldi del sole che scende. Vedrete chiaramente i bastioni, le cupole delle chiese, l’Esperò Reyal e la torre di San Giacomo, le chele di cemento del porto che escono ad accogliere le banche che rientrano. Allora, giusto in un attimo, capirete perfettamente come il mare che mormora dolcemente ai vostri piedi avvolga con affetto anche Alghero tra mare, spiagge e dialetto catalano. Non la circonda completamente, è vero. Ma per essere un’isola, a volte, non sono questi i dettagli che contano.
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