Sembra un paradosso: ma, quando a fine pasto alzate un calice a tulipano in controluce, ricordatevi di ringraziare gli arabi. No, non è uno scherzo, è proprio alle genti che ora bandiscono come tabù il dio Bacco e l’ebbra stirpe dei suoi eredi che dobbiamo l’eredità impagabile dell’acquavite. E non è una battuta irriguardosa dovuto al proverbiale bicchiere di troppo. Come si fa la grappa lo dobbiamo proprio a loro.
Vuole la leggenda infatti – parlare di storia in questo caso parrebbe eccessivo – che l’idea della distillazione delle vinacce sia scattata al sole di Sicilia quando la Trinacria, terra di ulivi e di aranci, era calpestata dai Mori. Che a loro volta ne avevano appreso il segreto dai Persiani e dagli Egizi. Una versione troppo fantasiosa? Per nulla; visto che la prima codifica della distillazione – e qui è invece scienza – è da attribuire alla Scuola medica salernitana – ancora al Meridione – intorno al lontano e cupo anno 1000. Quando l’acquavite non era bevanda per rilassate meditazioni post prandiali ma farmaco nato dalla ricerca dell’”acqua di vita“, il mitico liquore della eterna giovinezza e della vita eterna. E scusate se è poco.
Detto così ce ne sarebbe abbastanza per deporre il calice e fermarsi a riflettere su come si fa la grappa. E il suo mito. Ma in realtà non è ancora finita: e il quadro si complica ulteriormente. Si, perché se tutto questo è vero, com’è vero, diventa difficile spiegarsi come mai, nel 1451, un ricco possidente di Cividale lasciasse agli eredi, s’intende affranti ma grati, un alambicco “ad faciendum aquavitem”.
Il Friuli è però ben lontano dalla Sicilia, il Nord sembra quindi per vie misteriose avere scippato al Sud il sogno degli alchimisti e il segreto degli alambicchi. E per un liquore diventato simbolo universale delle balze alpine e delle fatiche degli uomini con la penna sul cappello ce ne sarebbe abbastanza per scatenare una guerra di paternità su dove e come si fa  la grappa. Ma per fortuna, in questo caso almeno, la materia è prescritta. E la grappa trasparente e senza fronzoli, ha da allora continuato a diffondersi senza badare ai confini anche perché, in quei tempi magri di tanto lavoro e pochi soldi, le vinacce erano in pratica una delle poche “ricchezze” dei contadini. Che dovevano pagare al padrone le decime in vino. E gli scarti della vinificazione erano giusto quello che restava agli scalcinati mezzadri.

grappa

Come si fa  la grappa: il distillato degli alpini

“Il risultato è che la grappa era un prodotto povero, a basso costo. Dedicato ad un pubblico di forti bevitori più interessati a tramortirsi che ad altro”, ricorda Carlo Andreoli, erede della distilleria Maddalena Peroni di Gussago, nel Bresciano. Una zona, ai confini della Franciacorta, da sempre generosa di uva, e quindi di vinacce, e dove le caldaie di rame parevano legione. “Basti pensare che solo quaranta anni fa nel territorio di questo comune le distillerie attive erano una ventina. Ora una soltanto”. Per una scrematura brutale che nasce da lontano: nelle ultime stagioni le distillerie che hanno realmente acceso l’alambicco sono state, in Italia, circa centotrenta. Alla fine dell’Ottocento erano duecentomila.
La prova, il segno, che la grappa, quella di allora, non è più la stessa. Specchio alcolico e aromatico del mondo intorno che è cambiato. Rapidamente e, per una volta tanto, in meglio. Anche se le regole di come si fa la grappa sono sempre le stesse.
La sparagnina civiltà dei campi infatti ha lasciato il posto alla mollezze della modernità, le sbronze in osteria alle degustazioni consapevoli, le bottiglie da pugno nello stomaco distillate di nascosto in fondo alla cantina a rari e preziosi millesimati di monovitigno. Tanto che la nostalgia per la “sgnapa” resiste solo nei canti al tramonto degli alpini alle adunate. E loro come si fa la grappa lo sanno.
“Ora la grappa è di moda, la apprezzano e la bevono anche i giovani e le donne. Quelli che magari fino a pochi anni fa avrebbero scelto al massimo un rum”, aggiunge Gozio, responsabile delle comunicazione della distilleria Borgo Antico San Vitale di Borgonato di Corte Franca. Terra di bollicine da primato.
Ecco perché, a questo punto per davvero, è il caso di deporre il calice. E fare un po’ il punto. Chè, quella della grappa, si svela come una straordinaria piccola favola italiana. Da fare girare la testa. Un miracoloso esempio di come dagli antri degli alchimisti si sia passati alle quotidiane trasgressioni della gente dei campi. Per finire alle tavole “stellate” e alle guide spocchiose. E tanto successo sarebbe da fare studiare nelle scuole di marketing che si dovrebbero inchinare di fronte a come nasce la grappa.
“Fino agli anni ‘50 o ’60 si beveva molto e il parametro fondamentale era che costasse poco e che si potessero sfruttare fino in fondo le vinacce”, prosegue Jacopo Poli, titolare della omonima distilleria di Schiavon, a due passi da Vicenza. “Ma nel frattempo è poi cresciuta la cultura del vino, l’attenzione alla qualità è esplosa mentre calava la quantità. E ci si è resi conto che la grappa, come una Cenerentola dimenticata, aveva in sé tutto il meglio delle uve. E si è cominciato ad estrarlo”.
Ed allora eccoci di nuovo tornati all’antico. Al sogno degli alchimisti: loro, quasi per magia, cercavano di estrarre la quintessenza inseguendo la vita senza fine. Ora, i grappaioli invece, con la tecnologia e l’amore, inseguono l’anima dell’acino. Per regalarci piaceri sempre più duraturi.

grappa nei bicchieri

Come si fa la  grappa  dalle vinacce

Per farlo si è iniziato, adesso pare banale ma è stata una sorta di rivoluzione, a selezionare con cura le vinacce, a lavorarle con sempre maggiore attenzione, separando vitigni diversi e facendo esplodere le differenze. Il risultato è che la grappa, l’abbiamo detto, ha già spento le mille candeline. Ma solo ora è diventata grande.
“Noi, per esempio, usiamo solo le vinacce fresche di uva di Franciacorta. E poi grazie ad un uso delle botti e delle barrique proseguiamo a personalizzare i prodotti”, prosegue Gozio. Già, quella che una volta era bevanda ruvida per stomaci foderati di fame e stanchezza ora ha cambiato volto, è diventata una signora che ad essere confusa con le altre vezzose non ci sta. Ed ecco perché può essere una scommessa divertente girare l’Italia sulle tracce dell‘acquavite per capire come nasce la grappa. Che al mutare dei luoghi cambia faccia.
Dal Piemonte al Friuli allora ogni territorio esprimerà le sfumature della propria terra, suggestivi musei dedicati proprio alla bella figlia dell’alambicco racconteranno la vita quotidiana di quei contadi. E un assaggio ci regalerà anche quel piccolo brivido di calore che a fine pasto non guasta mai.
Quanto tempo è passato, reale e metaforico, da quando nel 1860 Paolo Segnana da Borgo Valsugana, fondatore di un marchio che vive tutt’ora, piazzò con due belle mazzate un alambicco su un carro trainato da cavalli iniziando a girare, porta a porta, tra masi e fattorie per lavorare al più presto le vinacce come volevano i burocrati inflessibili – e astuti bevitori – dell’Impero Austro-Ungarico. O da quando Giobatta Poli, stanco di vendere cappelli di paglia nel 1898 fece altrettanto vicino a Bassano – guarda caso: del Grappa – oppure, più di recente, quando appena diciassettenne, stropicciato orfano dalla fine della guerra, Romano Levi iniziò ad accendere il fuoco sotto l’alambicco della sua distilleria di Neive, in terra di Langa. Se uno come Veronelli lo definì “Grappaiol’angelico” e alla sua morte i quotidiani lanciarono la notizia in prima pagina significa forse qualcosa.
Un segnale appunto che la grappa non è più invidiosa dei cugini d’Oltralpe. E che adesso nella fascia prealpina, terra capace di freddo brutale ma generosa di cibi robusti, nasce un prodotto unico e straordinario che oggi, come è ovvio, è tutelato e controllato. E le grappe di Piemonte e di Barolo, di Lombardia, Alto Adige, Trentino, Veneto e Friuli portano già in etichetta il loro pedigree.

distillerie- grappa

Come si fa la grappa: e ha il cuore

A noi, curiosi, toccherà allora magari partire per cercare di scoprire quale vitigno si sublima nella nostra grappa dei sogni. Ricordando che si fa presto a dire grappa ma che, con osservanza, anche questa acquavite rispetta le gerarchie: così, come una volta tra gli alpini, ci saranno i “bocia”, che sono poi le grappe “giovani”, e i “veci”, ovviamente le “invecchiate” e le “stravecchie“. Mentre, sontuosa via di mezzo, una “affinata” che ha riposato per qualche tempo in una culla di legno mette d’accordo gli uni e gli altri. Così come si fa la grappa è una storia complessa, fatta di regole antiche. Tutto il resto è gusto personale, sfumature di palato, piacere. C’è chi non si perderebbe mai una profumatissima grappa trentina di Muller o Moscato rosa e chi stravede per le più vigorose acquaviti friulane di cabernet e merlot. Ma anche, scelta comprensibile, chi non sa rinunciare ad una grappa di nobile uva rossa piemontese. E se si aggiunge che da quelle parti la “Corporazione degli Acquavitai” è nata agli inizi del ‘700 sotto il regno di Vittorio Amedeo II di Savoia si comprende come in certe zone dire grappa voglia dire tradizione. E chi non beve con noi, per davvero peste lo colga. Ecco perché, allora, l’unica cosa da fare per davvero, per capire come si fa la grappa è partire e inseguire un filo di fumo. Quello che, proprio in questi tempi, nei giorni che seguono la vendemmia, sale dai camini dove avvampa il fuoco degli alambicchi e che vale la pena, se possibile, di provare a visitare. Una volta dentro, tra profumi intensi e vapori, ci si può confrontare con un sapere e una tecnica antica e scoprire quanta poesia ci sia in questa danza di alcol e calore. Dall’alambicco, da sempre si toglie “la testa” del prodotto, per evitarne gli aromi forti e aggressivi ma anche “la coda“, pesante e oleosa. Quello che resta è il meglio, quello che noi sorseggiamo. E’ bello sapere che si chiama “cuore.”