E’ come chiedere ad un bimbo se vuole più bene alla mamma o al papà. La creatura, paonazza per l’imbarazzo, bofonchierà qualcosa e, per sempre, vi guarderà con sospetto. Nello stesso modo chiedere ad un qualsiasi goloso parmigiano (non parmense, sia chiaro. Allora si sconfinerebbe fuori le mura, verso il contado) quale sia il prodotto migliore della cucina tipica di Parma vi garantirà occhiate oblique e faticosi giri di parole che non vogliono dire nulla.
Che come si fa a stabilire se è meglio il prosciutto, il culatello o il formaggio Parmigiano? Non si può, è ovvio. Anche perché, in una famiglia, oltre a mamma e papà, ci sono zii e nonni, cugini e avi acquisiti più o meno alla lontana. E allora non si può fare uno sgarbo ai parenti meno snob, come spalla cotta o salame di Felino, o scontentare il ramo cadetto denigrando coppa e pancetta. E questo solo a fermarsi ai congiunti di primo grado. Che se si scala la genealogia, e dal prodotto “di base” si passa al piatto “cucinato”, il dubbio si tramuta ben presto in dilemma.
La cucina tipica di Parma: salumi e tortelli
Cosa si può dire infatti dei tortelli con il ripieno di ricotta e erbette, emblema della notte magica di San Giovanni, o degli anolini, simbolo irrinunciabile del desinare natalizio? E della rustica ruffianeria della torta fritta, della magniloquente cadenza dei bolliti sposati con le salse? No, la confusione è estremamente grande sotto il cielo di Parma e forse per questo la situazione è eccellente. Almeno intorno alla tavola tanto che persino l’Unesco ha nominato Parma, prima in Italia, Città Creativa per la Gastronomia.
Parma, è infatti una famiglia allargata di sapori, di gusti e la gente di qui lo sa bene. Tanto che, oltre il piatto, il cibo spesso finisce per colonizzare discussioni e discorsi. E dibattere di ricette in questi luoghi è un po’ diverso che farlo altrove dove qualcuno, sbagliando in buona fede, potrebbe mugugnare che, in fondo, si tratta solo di roba da mangiare.
Un errore comprensibile per chi non abbia compreso che Parma del suo cibo prima ne parla a lungo. Poi lo mastica con gusto. Infine, e per molti qui sta il vero piacere, se ne vanta. E se nella chiacchiera può infilarci qualche strizzata d’occhio, o qualche perla pescata da un passato più o meno mitico, lo svolazzo che aggiunge al ripieno dei tortelli diventa perfetto. E andare al ristorante diventa una cosa seria.
La diatriba sul ripieno della pasta
Per capirlo basta interrogare il solito autoctono goloso sulla ricetta del più classico, e quindi più contestato, dei piatti della cucina tipica di Parma: gli anolini. Rigorosi professionisti della ricerca gastronomica, persone normalmente ben informate sui fatti, di fronte a questo allargano le braccia e in guide e ricettari riportano cinque o sei, addirittura dieci, ricette diverse per un piatto che, a banalizzare in modo avvilente, si potrebbe definire semplicemente pasta ripiena.
Già, ma ripiena di cosa? C’è chi dice di stracotto di carne bovina e Parmigiano, chi sancisce che la ciccia deve lasciare il posto al solo sugo ristretto, chi aggiunge pangrattato, chi si sentirebbe perduto senza un nonnulla di maiale. E tutto ciò glissando su chi sibila che senza chirurgici inserimenti di noce moscata, concentrato di pomodoro e altre meraviglie, più o meno segrete, il risultato non sarà quello sperato.
La grande confusione nella cucina tipica di Parma
Se a questo si aggiunge che gli anolini, per qualcuno (inutile indagare sui motivi) cambiano anche nome e diventano cappelletti si fa presto ad intuire che non resta che rassegnarsi e tacere. Magari riempiendosi la bocca di assaggi diversi e ripetendo come un mantra la sentenza di quel saggio che stabilì che di vere ricetta ce ne sono tante quante sono le case dei parmigiani. In fondo gli anolini da queste parti sono come la squadra per cui si fa il tifo. Comunque vada, nel cuore e nel palato porti quella. E non la si può certo cambiare.
Ora, sia chiaro, questa balcanica indeterminatezza non è che poi abbia prodotto dei danni. Anzi, è proprio da tanta varietà che nasce la ricchezza della cucina tipica di Parma. Come si scopre, semplicemente, infilando la testa nei profumi di una salumeria del centro. Dove, appesi trionfalmente o accuratamente esposti come tesori da coccolare, stanno i mille simboli saporiti dell’Olimpo locale che, epicurea concessione, non ha mai scelto il monoteismo. E dove ciascuno omaggia il proprio idolo. Che, se è minore, è meglio.
Non si spiega se non così, con una golosa forma di snobismo molto parmigiano, la passione per i figliastri e i bastardelli: che talvolta, succulenta vendetta, superano il capostipite. E’ il caso dello strolghino, un salame smilzo da mangiare in tutta fretta e che, sancisce la tradizione, deve essere fatto con le rifilature del blasonato culatello. O il tosone, sfrido del Parmigiano recuperato dalle forme prima della stagionatura, che da il meglio di se fritto e gustato caldo. Se lo si avvolge di pancetta, poi, è pura poesia.
Ma Parma, cuore di una Emilia spuria e spocchiosetta, fa di tutto per non scordare, e soprattutto per ricordare agli altri, di essere stata ducato e così, a fianco degli umili, glorifica la nobiltà. Se non di sangue, almeno di carne. E nelle terre di Giuseppe Verdi lo fa con un acuto.
La disfida del culatello. Ovviamente supremo
Qui, e solo qui, una volta all’anno, professionisti normalmente serissimi e responsabili, indossano una austera tunica rossa e sfilano tra le volte di un antico maniero, uno dei tanti castelli della zona, sotto l’egida di un vero principe del Sacro Romano Impero inseguendo il sogno di un culatello supremo. No: non il Graal, non la pietra filosofale. Ma il meglio possibile estratto dalla parte più prosaica della già plebea coscia suina. Parrebbe incredibile ma nessuno durante la concentrata degustazione si permette mai di sorridere.
Nello stesso modo, tra le panche di una osteria sotto i portici del centro, da anni, la pausa del mezzogiorno per molti corrisponde all’inossidabile appuntamento con un panino semplice e perfetto: focaccia calda, scaglie di Parmigiano e prosciutto crudo. Il nome vale una dichiarazione di poetica: il principe.
Che forse, il segreto della cucina tipica di Parma, e della terra che rappresenta, è proprio questo: avere sempre preso sul serio una cosa di cui altri ridono. Peggio per loro: e chi non mangia con noi peste lo colga.
La cucina tipica di Parma e la sfida della globalizzazione
E’ così ora, che tra borghi e piazze qua e là occhieggiano come d’altra parte ovunque, tagliatori di sushi e dispensatori di kebab, ma lo è stato pure in passato per una continuità nel culto della gola che, pur con i dovuti aggiustamenti, resiste tenacemente. Anche negli occhi e nel palato di chi di cibo e vino, vive e scrive come Edoardo Raspelli: “Parma e i suoi gusti sono ancora al centro del mio immaginario goloso. Ripenso a quando, poco più che adolescente, mi fermavo al ristorante Aurora. Un’esperienza fortissima che è stata alla base del mio primo articolo su “Civiltà del bere”. Certo, sono passati gli anni ma Parma resta ancora un luogo speciale: basti pensare a prodotti eccezionali che nascono in queste terre“.
Luoghi dove, ancora aleggiano presenze che hanno lasciato un segno. E c’è chi teorizza che la firma in fondo ad una ricetta valga per molti quanto quella che sigla una tela perché il cibo, a Parma, non è materia che sta solo nel piatto. Ma anche nel ricordo. Ed è una memoria coltivata con compiaciute pennellate degne, forse, di miglior causa e che spesso sconfina nella malinconia. “Non si mangia più come un tempo – dicono i gourmet. – E anche la nebbia non c’è più”. Vero o falso che sia la cucina tipica di Parma prova a resistere anche se ormai anche da queste parti è sbarcata l’Europa e i tecnologi d’importazione dell’Efsa, l’Authority alimentare UE che ha sede in città. Peccato si occupi di cibo ma dal lato sbagliato. Quello della tecnologia e della sicurezza, non del piacere.
Un viaggio tra i sapori della cucina tipica di Parma
Ma poi basta poco per ricominciare a sorridere. E pregustare un sapore. La globalizzazione, quella brutta, quella che, in molti luoghi, ha fatto estinguere ricette antiche per sostituirle con contaminazioni senza garbo, non ha abbattuto in città il suo tsunami di banalità e luoghi comuni. Le trattorie così continuano a proporre tortelli di erbetta e qualcuna, fortunato incontro, anche di ortica, con i primi brividi di fine estate sui menù rispuntano i ganassini di maiale con la polenta arrostita. E la pancetta si scioglie ancora sui rettangoli bollenti di torta fritta.
Quando i cieli grigi e bassi d’autunno iniziano a strofinarsi sui tetti delle case, tavolate chiassose si ritroveranno per l’appuntamento lipidico della maialata. Ed è un bel modo per capire quante tenere declinazioni possa avere un brutto ceffo come il maiale. In una di queste cene, forse qualcuno dirà ad alta voce che gli anolini sono del tipo sbagliato. Voi assentite cortesi, sorridete e spiegate che volete bene sia alla mamma che al papà. Poi, chiamate il cameriere e fatene portare un altro piatto.
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