C’era una volta una contessa. Si chiamava Matilde, aveva fiammeggianti capelli fulvi, una spruzzata di sangue longobardo e in pieno Medioevo, tempi bui di servitù e donne senza voce, avvolta in pepli di seta si concedeva il lusso di dare ordini ai papi e dominare mezza Italia. Obbligando pure un imperatore – scusate se è poco – ad improvvisarsi pellegrino appiedato tra i ruvidi calanchi dell’Appennino fino a Canossa. E c’era una volta – e per fortuna c’è ancora – mille anni dopo, un altro nobile: il Parmigiano Reggiano.
Che è fatto di latte, ha sangue purissimo di vacche selezionate – non è mancanza di rispetto: anche questo è blasone – e senza bisogno di mantelli o crinoline il mondo intero ce lo invidia. Tanto che se qualcuno prova ad imitarlo è destinato a una figuraccia così meschina che, volente o nolente, dovrà prima o poi salire a Canossa. Pronto a chinare il capo e chiedere scusa al re dei formaggi.
La terra del Parmigiano Reggiano: dall’Appennino al Po
Storia, territorio e tradizione: per capire la storia e i segreti del Parmigiano Reggiano occorre partire da qui. E se dai tempi lontani della grancontessa regina Matilde di Canossa – correva l’anno 1077 – il mondo intero ha chissà quante volte ribaltato costumi, pensieri e stili di vita per quanto riguarda il formaggio che nasce in queste terre fortunate ogni cosa è rimasta identica. A partire, testardamente, dalla ricetta.
Sì perché, in quel rettangolo di grassa pianura, tra le prime balze del monte Appennino e l’umida Bassa, terra di ricca di castelli, che si specchia nella corrente del Grande Fiume pigro, alcune migliaia di pazienti artigiani riproducono ogni giorno lo stesso immutabile rituale. Fatto di due mungiture quotidiane – una la sera e una all’alba – e di un sapere antico.
Come antica è la forma di campana delle panciute caldaie di rame che abbracciano il latte. Prima che il fuoco, mai invadente o sgarbato, leghi e dia concretezza a quella che, in principio, è solo una liquida massa di seicento litri di candore. Poi, grazie alle mani senza fretta dei casari, diventa geometrico embrione di quello che sarà il re dei formaggi. Sarà, abbiamo detto. Perché oltre al latte e alla tradizione manca ancora solo un ingrediente: il tempo.
Una tecnica antica. E sempre uguale
Avvolta in una rustica tela la forma di quello che diventerà Parmigiano Reggiano verrà allora deposta in una fascera che le darà la sua definitiva apparenza prima del “battesimo”: un numero progressivo la seguirà come un documento e una marchiatura ne fisserà la data di produzione, identificando il luogo – qui si chiama casello – dove il latte si è sublimato. A riprova che nell’epoca nostra della tecnologia che ogni cosa banalmente riproduce, della standardizzazione estrema, chi con amore produce questo formaggio non prende neppure in considerazione che le forme siano tutte uguali.
E il bello è che si fa così ora come si faceva ai tempi delle armature: la conferma sta in una pergamena del 1571 con il sigillo di sua eccellenza Don Filippo di Borbone, duca di Parma, che rese obbligatoria nella sua giurisdizione la marchiatura del formaggio allo scopo di tutelarne la qualità. Passa il tempo ma è evidente che, da queste parti, è una prassi a cui proprio non si vuole rinunciare. Ecco allora perché vale la pena di iniziare un viaggio a ritroso fino, più o meno, ai tempi della contessa dai capelli di fiamma. Il premio sarà scoprire una bella storia. E capire come dal latte possa nascere un tesoro.
Il Parmigiano Reggiano e l’anno Mille
Tutto ebbe inizio poco dopo l’anno Mille quando la pianura Padana cambiò volto. Gli intraprendenti monaci cistercensi e benedettini iniziarono, pregando e lavorando, vorticose opere di bonifiche intorno alle abazie e cominciarono ad allevare, nelle terre dissodate, mandrie di bovini. Che oltre a fornire – bontà loro – forza lavoro e tagli di carne, regalavano latte. Ma il latte, purtroppo, si deteriora in fretta. Buttarlo sarebbe stato un peccato mortale: serviva un colpo di genio per conservarlo. Nacque così il formaggio grana, quello che ancora noi conosciamo come Parmigiano Reggiano e che ben presto cominciò a circolare tra i curiosi buongustai d’allora, conquistando fama di prelibatezza.
Tanto che – la storia del gusto si fa anche così – un lascito di una vedova genovese, stilato da un notaio nel 1254, registra testualmente anche la presenza nella dote di oltre venticinque chili di “casei parmensis”. Che poi è la stessa prelibatezza che compare nella succulenta lista della spesa della mensa dei Priori di Firenze nel 1344. Ricchi nobili e devoti religiosi; di fronte alla livella del palato fino non c’è differenza. E il risultato è che anche un proverbialmente laico e gaudente scrittore come Giovanni Boccaccio, pochi anni dopo, si sdilinquì in una psichedelica visione in cui la terra di Bengodi veniva raccontata come il luogo dove troneggia “una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato”. Oggi sarebbe marketing. Allora era semplicemente grande letteratura.
Insomma, il formaggio, partendo dalle grange dei monaci si conquistò in poco tempo un posto di primo piano, diremmo oggi, nell’immaginario del bel mondo. E questo ben prima che la sottile arte della pubblicità potesse aiutarne la conoscenza.
Le regole di produzione del Parmigiano Reggiano
Ciò che più vale è che tutto iniziò da queste terre che, ancora oggi, sono la culla del Parmigiano Reggiano E la regola che ne sancisce ogni fase di produzione è rigida: si fa qui e soltanto qui. Ovvero nel rettangolo impreciso formato dalle province di Parma, Reggio Emilia, Modena e parte di quelle di Mantova, alla destra del Po, e di Bologna, alla sinistra del fiume Reno. Terre di pianure e torrenti, saliscendi di colline e distese di campi dove si susseguono gli oltre quattromila allevamenti che coccolano le vacche – nulla cambia se rosse, brune o pezzate – il cui latte alimenta le caldaie dei circa trecentosessanta caseifici del circuito del Parmigiano Reggiano.
E’ un mondo in apparenza piccolo, un fazzoletto color verde prato marezzato di bianco latte, ma che si basta e si compiace del proprio tesoro, partendo dalla raccolta dei foraggi per arrivare alla lavorazione secondo un disciplinare che fissa paletti più rigidi di una bolla imperiale. Ma che poi, per le sfumature rimanda poeticamente a “quella prassi consacrata dagli usi locali, leali e costanti”. Dopo tanti secoli non ci sono maestri migliori cui potersi affidare.
Ma il mondo non è più quello dei chierici, dei mercanti e delle volitive contesse e le regole devono essere chiare e traducibili nelle lingue asettiche del commercio globale. Anche se, ulteriore stranezza, a mirare oggi ciò che accade nelle stalle e nei caselli tra l’Appennino e il Po sembra ancora una volta di tornare indietro ai tempi di cavalieri e principesse. Il codice che fissa ogni passaggio nella produzione del re dei formaggi stabilisce infatti nel dettaglio anche la dieta precisa delle preziose bovine. Ed è curioso notare che l’idea ora modaiola della filiera corta o dell’invadente “chilometro zero” qui non ha bisogno di essere spiegata. Perché si è sempre rispettata.
Anche Ludovico il Moro lo chiedeva in dono
Recita infatti il disciplinare: “ben il cinquanta per cento dei foraggi che nutrono le mucche deve essere prodotta sui terreni della stessa azienda e comunque almeno il settantacinque per cento deve venire dall’interno del territorio di produzione del Parmigiano-Reggiano”. Detto così, nel mondo delle frontiere spalancate, sembrerebbe già una specie di sfida. Ma il formaggio che Ludovico il Moro elemosinava, con poco ducale eleganza, nel 1490 ai duchi amici chiedendo in dono una forma di “parmesano bono”, da sé stesso ha sempre preteso molto. Ecco che quindi le tavole delle legge del Consorzio fissano anche la qualità delle erbe che finiranno nelle mangiatoie. Le mucche sazie e compiaciute, se potessero, direbbero grazie.
Il menù degli animali prevede solo foraggi freschi ottenuti dai prati, i fieni e le paglie senza insilati e senza, assolutamente, additivi, grassi o altri prodotti che non siano naturali. Certo, era una cosa comune ai tempi della contessa. Oggi è una prova di tetragono attaccamento alla tradizione e alla qualità.
Ma farlo, e farlo bene, non basta. Almeno se non si vuole dimenticare che, oltre all’ambiente, al dono degli animali e al sapere dell’uomo, serve un impalpabile ingrediente in più: il tempo. Ecco perché una volta che la forma ha lasciato il caldo abbraccio della caldaia inizia un nuovo viaggio. E la fretta non è contemplata.
Il tempo della stagionatura
Il basso cilindro appena uscito dalle mani del casaro viene immerso in una soluzione di acqua e sale dove resta per meno di un mese. Poi, abbandonata definitivamente la sua saporita placenta, il formaggio sfida l’aria, il mondo. Qui inizia a evolvere. Servirà molto tempo, almeno un anno. E quei primi dodici mesi saranno fondamentali per capire se ogni singola forma manterrà le iniziali promesse. Meritandosi il proprio quarto di nobiltà.
Per tutti quei giorni il formaggio resterà in penombra, allineato su lunghi teorie di assi di legno nelle stanze di stagionatura. Raccontata a parole è solo una immagine suggestiva: dal vivo è uno spettacolo per gli occhi e l’olfatto. Ma ancora più affascinante è quanto avviene dopo. Quando la forma viene controllata dagli esperti del Consorzio che, con una sorta di balletto ben cadenzato della mano e dell’esperienza, testano il formaggio. Una ad una le forme vengono scrutate, fatte risuonare con un martelletto, assaggiate con lo sguardo e l’udito. Non è tecnologia, è arte. E se tecnicamente si chiama espertizzazione è proprio vero che una prassi cosi seducente e quasi magica forse meriterebbe un nome meno brutale.
Parmigiano Reggiano: il re dei formaggi
Ma poco conta: quello che vale è ciò che ne deriva. Quando finalmente sulla solida crosta color paglierino a fuoco viene impresso il marchio. E’ come una investitura: significa che questo è il vero Parmigiano Reggiano, che rispetta tutte le sue regole secolari, che si può fregiare della Denominazione di origine protetta che l’Europa gli ha concesso. Che questo è il re dei formaggi e nella cucina di Parma lo è ancora di più.
Ma un sovrano, si sa, al massimo si fa consigliare. Poi sceglie in autonomia. A quel punto la forma potrebbe essere messa in commercio ma molto spesso serviranno ancora molti mesi perché si possa esprimere al meglio. Dopo un anno e mezzo il formaggio ha la dolce esuberanza di un giovane che si sente in grado di sfidare il mondo, dopo ventidue mesi rivela inattese ricchezze e sorprendenti caratteristiche espressione di maturità. Dopo trenta si fa vanto di dirsi stravecchio. E ha la potenza che ti aspetti da un nobile vegliardo sul trono. Ma la sua vita – che fortuna – può essere ancora molto lunga: e ci sono forme che superano con baldanza i sessanta, i settantadue mesi e ancora emozionano il palato e chi ha la fortuna di assaggiarle. Arrivare a queste dopo una progressione di assaggi è come arrivare alla vetta di una montagna di sapori.
I contrassegni e il Consorzio
Per aiutare nella scelta, nel corso degli anni, il Consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano ha creato dei contrassegni, bollini colorati che guidano il consumatore: aragosta, argento, oro. Dal punto di vista del tempo indicano diciotto, ventidue e oltre trenta mesi di attesa delle forme nel silenzio di una sala di stagionatura. Dal punto di vista della gola un crescendo di armonie sempre più complesse e ricche, come un tenore che dispiega la voce in una romanza. Il fatto che da quelle parti, nelle terre Verdiane, si celebri con sincera passione anche il rito del melodramma e del bel canto evidentemente non può e non deve essere un caso.
In Italia e nel mondo
Il resto poi è gusto personale, esperienza, scelta di cucina. Già in tempi lontani i grandi cuochi di corte hanno dibattuto sull’uso del Parmigiano Reggiano, stabilito abbinamenti e condiviso segreti. E se Cristoforo di Messisburgo, conte palatino e “chef” di Estensi e Gonzaga, nel 1500 proponeva sei piatti di Parmigiano in diverse sequenze sono innumerevoli le citazioni e gli omaggi nelle pagine ingiallite delle biblioteche. Tanto che piace pensare che sia vero che Molière, sommo portabandiera del teatro transalpino, abbia concluso a Parigi la sua vita nutrendosi solo di Parmigiano. Per i cugini d’Oltralpe, fieri dei loro latticini assortiti, uno sgarbo difficile da sopportare.
Ma anche la contessa Matilde aveva sangue nordico eppure, ai piedi dei masti diroccati dell’Appennino, la si celebra ancora con affetto. Queste, tutte intorno a perdita d’occhio, sono le terre della lunga attesa dell’imperatore ma anche dei magazzini dove nasce l’oro giallo che profuma di latte. Per parte nostra non imitiamo Enrico IV, aspettando troppo; in fondo noi non abbiamo nulla da farci perdonare. Piuttosto ripercorriamo con la mente questi mille anni di storia, diciamo grazie a chi ha saputo immaginare che il latte potesse farsi perla. Poi, anche noi senza fretta, iniziamo ad assaggiare.
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