Le metafore, di solito, non si mangiano. Ma talvolta accade che un’immagine, un simbolo, finiscano per avere più sapore di cento assaggi. E si sente anche il profumo. «Pensiamo al germoglio del rafano: è legnoso perché la nostra terra è dura, gelata, vagamente ostile e quindi fatica per farsi strada, per sbocciare. Ecco, esattamente come il germoglio è la gente del Friuli: dura per resistere, per affrontare questa terra. Ma quando si apre, quando la scopri, è speciale». Emanuele Scarello, chef “stellato” del ristorante “Agli amici” di Godia, alle porte di Udine, sembra che parli di una pianta ma finisce per raccontare un popolo – il proprio – insieme alla cucina della Carnia. E alla fine viene proprio voglia di lasciare perdere le ricette, mettersi in ginocchio a cercare quel testardo filo di cren che sbuca dalla terra. Per assaggiare in un morso l’anima del Friuli.
«Oltre all’immagine della pianticella occorre poi tenere conto della storia e della geografia: Tarvisio è a solo 700 metri d‘altezza, è il passo più comodo di tutte le Alpi, una sorta di transito obbligato attraverso cui entrare in Italia. E questo spiega perché siano passati tutti da qui».

La cucina della Carnia:

La cucina della Carnia: invasioni nel piatto

Il risultato sono stati secoli di invasioni e scorrerie di barbari, vite già magre di fatica nelle valli rese ancora più misere dalle razzie di quei popoli in fuga. Tanto che alla fine ci si ritrova a pensare che il destino del germoglio testardo non sia poi il peggiore possibile.
«Siamo da sempre una terra di confine, è impossibile dimenticarlo. E questo si dimostra nella cucina della Carnia», aggiungono nelle osterie di Udine. «Questo resistere in una zona di passaggio ha condizionato le nostre vite ma ci ha dato anche la possibilità di arricchire i sapori: perché ciascuno, passando, ha lasciato qualcosa».

La cucina della Carnia:

Un lascito certamente scomodo all’inizio ma che, col tempo, si è golosamente stratificato nelle ricette della cucina della Carnia. Unni, Longobardi, Bizantini: la lista dei popoli che hanno calpestato queste zolle è quasi infinita. E qualcuno la terra l’avrebbe anche importata: dice la leggenda infatti che il colle al centro di Udine, dove ora sorge il castello, sarebbe stato «costruito» dai soldati di Attila trasportando la terra con i loro elmi per permettere al “flagello di Dio” di mettersi comodo ad ammirare, in lontananza, la città di Aquileia che bruciava. E mai palco fu più crudele.

La cucina della Carnia: i sapori delle valli

Una leggenda, certo. Ma è invece storia il fatto che poi Udine, e il suo colle d’importazione, hanno sopportato tre secoli di Repubblica veneta, un assaggio di Napoleone e quindi l’impero asburgico prima della carneficina della Grande Guerra. E non c’è da stupirsi se in mezzo a tutto qual confuso viavai ci fu chi pensò bene di infilarsi delle scarpe robuste, mettersi in spalla una bisaccia  e partire. Mettendo così in marcia il mai tramontato mito dei crâmars e regalando nuovi sapori  alla gente e alla cucina della Carnia.

La cucina della Carnia:

“Per secoli gli uomini delle valli hanno raccolto le erbe spontanee, le spezie e le hanno esportate all’estero salendo sino in Germania, in Austria, in Polonia. Venivano appunto chiamati dal tedesco crâmars e commerciavano anche stoffe, piccoli oggetti. Dopo mesi di vagare riportavano i soldi guadagnati e le memorie dei piatti incontrati nel loro pellegrinare attraverso i paesi lontani”.
Quei mercanti ambulanti ora, è ovvio, non esistono più: ma anche la loro eredità, come quella dei barbari, resta nella cucina della Carnia. E assaggiando i cjarsòns, che sono ben più complessi del nostro germoglio iniziale, si capisce ancora meglio di cosa si stia parlando.

La cucina della Carnia: quegli speciali agnolotti

“I cjarsòns sono dei particolari agnolotti tipici della zona e questa è l’unica cosa certa. Chè il resto, la ricetta del ripieno, della stessa pasta, sono diverse da valle a valle, da paese a paese. Persino da casa a casa”, spiegano gli chef citando l’opera di Gianni Cosetti, uno chef che la sua terra l’ha amata e cucinata. E ne ha raccolto in tanti volumi i sapori. Scrivendo e cucinando questo “cuoco di Carnia”, esaltato tra gli altri dal grande Veronelli, ha anche scoperto che le varianti di questi agnolotti sono appunto infinite anche perché spesso la scelta del ripieno non nasceva dal filosofie di cucina. Ma dal caso.

La cucina della Carnia

“Le donne preparando il ripieno usavano quelle spezie e quelle erbe che erano rimaste sul fondo della gerla usata dal marito crâmars”, si sente ancora oggi raccontare. “E quando Cosetti lanciò un concorso tra le massaie per raccogliere la ricetta ne ricevette quaranta. Una diversa dall’altra.  Una leggenda pure questa? Assolutamente no. Ma d’altra parte in una terra che – lo sancì il Touring all’inizio del ‘900 – si trovano oltre 90 tipi di erbe officinali e che nello stesso tempo ospita forse altrettante varietà di sbilf – i dispettosi folletti dei boschi – molte cose possono accadere. Anche che qualcuno si stupisca di fronte alla vostra incredulità di forestiero nei confronti dei bizzarri abitanti degli alberi.

La cucina della Carnia: il tedesco antico e il prosciutto

“Si tratta di leggende che resistono in un territorio dove ancora si conservano molte tradizioni – ammettono gli abitanti di Sauris, un paese incantato a milleduecento metri d’altezza dove si produce un delizioso prosciutto affumicato, dove la gente parla ancora il saurano – un  tedesco arcaico simile ai dialetti carinziani e tirolesi del tredicesimo secolo – e dove, ogni anno, per il carnevale le maschere di legno del bene e del male, Rolar e Kheirar, si danno battaglia. A colpi di scopa e di musica.

“Il nostro paese è stato, di fatto, isolato sino al 1930 quando è stata costruita la strada. Ecco perché ha conservato questi usi così particolari”. Come quello strano prosciutto, appunto, che mantiene l’affumicatura a fuoco di di faggio,  della tradizione tedesca, mescolandola alla cultura del prosciutto trattato con il sale. Come accade nella non troppo lontana San Daniele.

La cucina della Carnia:

Quando il sole precipita rosseggiando dietro il Col Gentile e il monte Bivera, bevendo un bicchiere della locale birra Zahne – in saurano non è poi altro che il nome di Sauris – ci si ritrova facilmente a pensare che l’isolamento non è poi un gran problema. E che in questo posto i folletti devono sentirsi davvero a proprio agio.

La cucina della Carnia: figlia di tempi duri

“Oggi possiamo dire così: ma un tempo invece la vita qui era molto dura. Da Sauris si emigrava in cerca di lavoro mentre chi restava, per mangiare, si arrangiava con quello che si aveva intorno: il maiale del cortile, le uova del pollaio, il latte, le patate”. Una spesa povera – veramente “a chilometri zero” – che è alla base della cucina della Carnia che ha sempre proposto piatti robusti per gente che doveva lavorare e sostenersi. E che non sapeva neppure cosa fosse lo spreco.

La cucina della Carnia:

“L’esempio più classico è il formadi frant”, spiegano alla latteria di Enemonzo. – Si produceva tradizionalmente con scarti di altri formaggi imperfetti: c’erano i resti e i pezzi di forme “difettose” che non si potevano stagionare. Il tutto sminuzzato – appunto “franto” – si univa con panna e pepe e si dava vita ad una nuova forma”. Un riciclo estremo che oggi prosegue anche se, è ovvio, non sono più gli scarti la materia prima visto che ora si miscelano prelibate forme del classico formaggio “latteria” locale. Uno dei vanti della cucina della Carnia che da sempre ha sempre amato il matrimonio tra il formaggio e la polenta.

“E questo è un dettaglio da sottolineare: in questa zona non c’era la tradizione del pane che appunto veniva sostituito dalla polenta. Nello stesso modo alla pasta si preferiva l’orzo, i cereali”, prosegue Emanuele Scarello. Che poi ricorda come il vero simbolo della cultura globale fosse poi quello, spesso, ingiustamente vituperato: il maiale.

La cucina della Carnia:

La cucina della Carnia: il mito del maiale

“Dall’animale, come consuetudine, non si buttava nulla. Ma in più in questa parte del Friuli si preparava un prodotto particolare che è un salume ma anche una sorta di conserva. Il pestât è così un salume composto da lardo fresco macinato con verdure in piccolissimi pezzi insieme a salvia, rosmarino, aglio e che viene brevemente stagionato. In fondo, una volta, questo era l’unico modo per conservare le verdure fuori stagione”.

Inutile aggiungere altro: che qui in questa zona di colline dove oggi le cicogne, per nulla impaurite, si sono ricavate dei luminosi bilocali sui pali della luce come in un libro di favole il maiale – anzi il “purcit” – era una sorta di piccolo nume molto laico e saporito. Vera ricchezza in una terra dove – rape e patate insegnano – altrimenti si doveva fare i conti con la quotidiana difficoltà del vivere. Quella che i crâmars conoscevano così bene.

La cucina della Carnia:

E siamo ancora qui, ai grandi commercianti girovaghi. Ma in fondo è anche questa la forza di una terra dove le tradizioni, e i miti, resistono e non si piegano, dove la gente ama ancora andare nelle trattorie col fogolar – il grande camino intorno a cui un tempo viveva l’intera casa – a assaporare orzo e fagioli, musetto con la brovada e a raccontarsi, rigorosamente in dialetto – anzi in lingua: che il furlan è riconosciuto anche dallo Stato come lingua minoritaria – il piacere dello stare insieme. Che al momento dell’aperitivo,- scusate: del tajut – diventa rituale. E ben prima che sbarcassero happy hour e tapas arrivassero a colonizzare i banconi,  qui la gente si è sempre trovata per un bicchiere e una fetta di pane col Montasio o col prosciutto. Il bello è che si faceva un tempo. E si fa ancora.

La cucina della Carnia:

La cucina della Carnia: un bicchiere al tramonto

Così, dopo avere percorso le valli arcigne della Carnia o seguito i canali intrecciati del Tagliamento che incide la pianura è ovvio trovarsi per un tajut nel centro di Udine. I palazzi con i loro stili miscelati vi faranno ricordare che da qui sono passati tutti ma che in fondo Venezia non è lontana. E proprio quando i due mori che battono sulla campana scandiranno l‘ora del tajut iniziate un lento ciondolare tra le osterie. Tutto quello che vi serve sapere è che chiedendo un “tai” l’oste non avrà dubbi e vi servirà un bicchiere di vino.

In onore del luogo chiedete un friulano e nel bicchiere scoprirete il profumo del classico tocai. E’ il vino di casa, lo stesso che una burocratica disfida europea ha depredato del nome senza però riuscire a toglierlo dal cuore della gente. Ma in fondo, almeno in questo caso, il nome conta poco: anche il germoglio di rafano può cambiare nome e diventare cren senza mutare per nulla il suo sapore. Continuando a essere una minuscola metafora che buca il terreno. E racconta la cucina della Carnia e i sapori del Friuli.