Fidatevi di “Gabo”. Nel suo romanzo L’amore ai tempi del colera, Gabriel García Márquez definisce questa città “La più bella del mondo”. Per dire che per Cartagena de Indias non servono perifrasi. Perfino la penna di un premio Nobel si è piegata alla semplicità dell’evidenza: Cartagena in Colombia è innanzitutto e semplicemente bella. Poi è anche La Heroica secondo “El libertador” Simón Bolívar che le regalò l’indipendenza dalla Spagna nel 1821 e per i moderni collezionisti di slogan la città è, piuttosto, la “perla del Caribe”.
Cartagena: benvenuti in Colombia
In ogni caso benvenuti in una Colombia lontana dall’etichetta di paese pericoloso che tristemente l’accompagna. Isola felice o piuttosto zona franca, perché principale meta balneare degli stessi colombiani, la città non è più indisciplinata di qualunque altra metropoli che conti poco meno di 900mila abitanti. Anzi, Cartagena in Colombia è sotto un processo di perenne lifting da quando anche i fondi dell’Unesco contribuiscono al rinnovo dei suoi edifici.
Un atto dovuto per una città che ha intrinseco il culto dell’estetica e, ogni novembre, in un clima festoso quanto il Natale, ospita il “reinato”, l’incoronazione di Miss Colombia, nella speranza, in un futuro non lontano, di ospitare il concorso internazionale di Miss Universo. Le corride di gennaio, il festival del cinema di marzo, le regate di aprile completano il quadro di un El Dorado di opportunità cui in molti quaggiù si aggrappano.
Cartagena in Colombia: tre romanzi di Gabriel García Márquez come guida
Così è stato per esempio per Gabriel García Márquez, colombiano di Aracataca, che la elesse sua seconda patria: qui mosse i primi passi di giornalista, tanto squattrinato quanto promettente, e qui visse a lungo dal 1975.
Negli ultimi anni di vita invece il grande scrittore non tornava che pochi giorni l’anno nella sua casa – fra le meno affascinanti ma più fotografate della città – a pochi passi dalle mura e dal mare, ma ha scelto Cartagena in Colombia come sfondo per due dei suoi romanzi più famosi: “Dell’amore e di altri demoni” e “L’amore ai tempi del colera“, che, insieme alla sua autobiografia, “Vivere per raccontarla”, sono bussola migliore di qualunque guida per ritrovarsi ma soprattutto perdersi nella città.
La storia di Cartagena in Colombia è andata e venuta con le onde del mare imprigionate in una baia a forma di calamaro: “Se non ti respinge, ti inghiotte”: questo deve aver pensato il suo fondatore spagnolo Pedro De Heredia, nel 1533, quando individuò fra le chele di quella insenatura, protetta alle spalle dalle lagune, uno scalo sicuro per i tesori trafugati agli Indios.
I Caraibi e i pirati
Da allora la città visse sempre pericolosamente: le sue meraviglie da sdoganare attiravano pirati e bucanieri da tutto il Mar dei Caraibi. Fra costoro un giorno la marea portò anche un vero lord della categoria: Francis Drake al servizio di sua Maestà, nel XVI° secolo, saccheggiò la città e si rubò perfino le campane della cattedrale per trasformarle in cannoni.
Da allora i cartageneros capirono che il mare non bastava più a proteggerli e si circondarono di mura. Ne costruirono anche di sottomarine per bloccare avventori indesiderati: ancor oggi le navi devono ricordarsi di imboccare l’entrata di Bocachica, per approdare in città e non finire piuttosto incagliate a Bocagrande ad aumentare la schiera di relitti che leggenda e cronaca vogliono adagiati sul fondo della baia.
Cartagena e le mura per tenere dentro gli amici
La città amurallada si è conservata per intero fino ad oggi: eppure a vederle non sono mura ciclopiche. Anche García Márquez ebbe la stessa impressione: nella sua autobiografia si legge che sceso dal pullman che lo conduceva in città, impiegò qualche istante a scorgere la città e solo quando, con estrema grazia, gliela indicò l’autista – “Cartagena? Ce l’hai nel culo” -, Gabo si voltò e vide.
Vide lo skyline di pietra interrotto solo dalle cupole delle chiese e dal forte di San Felipe de Barajas e ne attraversò le porte per trovarsi proiettato in un mondo che ancora oggi sembra lasciar succedere molte cose al di fuori, perché all’interno tutti si conservi intatto. “Non si sorprenda, señorita, le mura oggi servono a questo: ieri tenevano lontano i nemici, oggi tengono dentro gli amici”, spiega allungando una muñetitas di manioca la venditrice del Portal de Los Dulces. Che tempestivo benvenuto!
Stranieri e turisti per le strade
D’altro canto stranieri e turisti si riconoscono a Cartagena: non spingono carretti ricolmi delle leccornie più esotiche, non portano ceste di frutta sulla testa né hanno il physique du rôle per sfoggiare panama su ariosi abiti di lino. E soprattutto molti si aggirano sotto questi portici color pastello come in cerca di conferme e di quello stesso “odor di mandorle amare degli amori contrastati”.
Sia che siate Gabofolos (esperti), Gabofilos (amanti) o anche solo Gabiteros (timidi fan) della sua opera, il “portale dei Dolci” è l’ombelico del mondo firmato Gabriel García Márquez. E’ questo il luogo dove ne “L’amore ai tempi del colera” si scrive uno dei passaggi fondamentali della storia di Fermina Daza e Florentino Ariza.
Da anni i due si amano di un amore giovanile e alimentato a distanza, con la complicità di qualche domestica, attraverso missive sognanti. Al loro incontro casuale, proprio sotto i portici, però lei “sentì l’abisso del disincanto…A stento riuscì a pensare: Dio mio, pover’uomo! E lo cancellò dalla sua vita con un gesto della mano”.
Una città da romanzo
Bel tipo Fermina Daza, ma le lusinghe della finzione del romanzo, sotto a questi portali, si sommano alle suggestioni della realtà: davanti ai portici si aprono Plaza de Los Coches e della Aduana. Quando Cartagena in Colombia divenne monopolio reale del commercio degli schiavi qui si svendevano libertà e dignità di tante persone, mentre oggi una varia umanità si accalca ad ogni ora: alla mattina si vendono libri, erbe e frutta, al pomeriggio arrivano stregoni e prestigiatori e per tutto il giorno all’ombra gialla e calda del “Reloj” fanno la ronda i venditori di tempo.
“Certo che abbiamo il cellulare noi colombiani!”, spiega Esther, bellezza creola strizzata dietro un cartello che recita rassicurante Llamadas a todos los destino, “Ma lo usiamo solo per ricevere. Per chiamare è meglio comprare 5 minuti a 300 pesos”. Lei allunga il cellulare, sorride, ritira il denaro e si scosta. Abbastanza per non origliare. Non troppo da incoraggiare eventuali malintenzionati alla fuga col cellulare a nolo in mano.
Cartagena in Colombia: da Bolìvar a Botero
A Cartagena funziona così: un po’ ci si arrangia e la vita è un gran baratto. Perfino i preti barattavano: lo fece per anni, nel XVII secolo il gesuita Pedro Claver, l’apostolo dei neri: dal vicino monastero ogni mattina si precipitava nella piazza a riscattare quanti più schiavi poteva. Ad aiutarlo, con le lingue, il fido Calepino che oggi sta abbracciato e fuso nel bronzo insieme al suo Don in una commuovente statua di bronzo. Già le statue: se è vero che a Barranquilla hanno già forgiato una statua per la regina del pop Shakira, anche Cartagena ricorda così le sue celebrità.
Ci sono l’India Catalina, altra interprete degli schiavi che, con la penna dritta in testa, fa da spartitraffico in una convulsa rotonda della città, c’è Bolívar, ci sono Cristoforo Colombo e la burrosa Gertrude che lo scultore Botero ha regalato alla città.
E poi c’è Blas de Lezo, eroe nazionale dal 1741, quando, pur avendo già perso in battaglia un occhio, un braccio e una gamba, seppe ricacciare la tracotanza inglese di Edward Vernon: “Era così sicuro di vincere che fece coniare anzi tempo delle monete in cui Blas de Lezo gli si inginocchiava arreso – spiega un poliziotto che nota la nostra curiosità di fronte alla statua – ma per l’occasione lo raffigurò restituendogli gli arti perché vincere contro un mezzo uomo era poco onorevole. Perdere poi…”.
Ogni piazza ha la sua statua
Ogni piazza ha una statua, una storia da raccontare e qualcuno pronto a farlo. Altre storie poi parlano italiano: come quella della Helateria brianzola, gestita da bergamaschi per consolare, con creme e sorbetti, made in Italy gli studenti dell’università all’angolo o quella de La Creperie , accanto al Banco della Repubblica, dove si usa il piemontese e, a tempo perso, si disegnano gioielli con smeraldi.
A Cartagena in Colombia il modo migliore per cercare i luoghi di García Márquez è farsi trovare da loro, cominciando a camminare all’ombra di mura sgranocchiate dal sale e incrostate di bouganville.
Le centinaia di case coloniali, a uno o due piani con mezzanino, somigliano tutte a quella del Giardino dei Vangeli dove Fiorentino Ariza vide per la prima volta, dietro le inferriate di legno, la bella Fermina dare lezioni alla zia.
Piazza della Cattedrale e il convento di Santa Clara
Vagabondando fra calle dai nomi suggestivi come Soledad e Amargura, Estrella e Dolores, si arriva prima o poi in piazza della Cattedrale, onnipresente nei libri di Gabo: qui la gente gioca ancora a scacchi all’ombra severa del palazzo dell’Inquisizione dove una piccola finestra accoglieva le accuse anonime: ne bastavano tre perché una persona fosse imprigionata e processata senza appello.
Altri luoghi invece hanno conservato intatto il fascino che la penna dello scrittore ha fissato nel tempo: prendi il Convento di Santa Clara, in calle del Torno: intorno sembra ancora di vedere la Cartagena coloniale e schiavista del XVII secolo di Dell’amore e di altri demoni.
Qui, nel suo chiostro si consumarono tormento ed estasi di Sierva Maria de Todos los Angeles e Padre Cayetano Del Aura e qui, sotto a quello che oggi è un elegante lounge bar, si può ancora visitare la cripta dove Sierva Maria con la sua massa di capelli rossi avrebbe finalmente trovato la pace.
Cartagena in Colombia: musica, carrozze e sfide a pallone
Fuori, per le strade intanto, ogni giorno si scrive lo stesso romanzo della gente di qui finché il tramonto non si porta via anche le ultime energie dei venditori del mercato schierati a Las Bovedas o lungo Calle Primera e Segundo de Badillo.
Così, quando, carrozze antiche – in città sono ben 60 i cocheros con licenza – e moderni taxi gialli si incolonnano pazienti, capisci che il tempo scorre a due velocità, in uno spazio che fa convivere il vecchio e il nuovo. Prima che il sole si addormenti nel mare, chi può sciama verso le mura: giovani a cavalcioni si rinnovano l’amore, ragazzini giocano a sognare el mundial in campetti improvvisati, evitando gli schizzi dell’oceano e, con le prime Rhum in Chiva, l’aperitivo pazzo a bordo dei bus, cala la sera.
Le tante anime della città
Allora quel romanzo della vita volta pagina, perché la notte a Cartagena in Colombia parla di modernità, con le piazze che si riempiono di suonatori, come in Santo Domingo e nei locali rumorosi di calle de l’Arsenal.
A questo ritmo potrebbe non esservi ragione per uscire da queste mura: ma una gita alle Islas del Rosario, e lungo il Canal del Dique , ricorda che, la fuori, ci sono tutti i colori più intensi dei Carabi, mentre potrebbero ispirare un nuovo libro a García Márquez gli omini secchi e sorridenti che lavorano al vulcano del Lodo El Totumo, un buffo cono di fango alto quindici metri dove fare un’esperienza quasi battesimale. Gli uomini del villaggio accolgono e massaggiano il visitatore con fare professionale, in una spa a cielo aperto.
Dalle loro misere baracche, da cui mai si affrancheranno, attendono, intanto, le donne per condurre l’ospite in una laguna, grande come la loro povertà, per un risciacquo che sa di infanzia e rinascita. Llevantate mi amor, alzati tesoro! È il saluto con cui si congedano a lavoro ultimato, il sorriso sdentato sulle labbra. Eppure quanto sono belle: fragili, come diroccate. Proprio come le mura della città che da sempre sono state più forti del tempo.
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