Da un piemontese, rigoroso e austero, è la risposta che non t’aspetti: «Il segreto delle Langhe? E’ la luna. Qui certe notti è enorme e sembra che ti corra incontro, che ti si avvicini e ti scruti mentre viaggi sulle colline. E con la sua luce fa la magia». Non il tartufo o i mitici grappoli di nebbiolo e dolcetto, non il latte delle candide vacche o le impareggiabili nocciole gentili. No: la luna. Un convitato evanescente che non siede a tavola e non occhieggia dai menu. Ma che, lo diceva anche un fiero figlio di questa terra come Cesare Pavese, conta. Anzi: «bisogna crederci per forza». E allora crediamoci e guardiamo in alto e partiamo per un viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe, concediamo un ruolo alla luna e pensiamo che l’atmosfera, lo spirito di questi luoghi è fatto di alchimie strane che riguardano ogni cosa. In queste zolle benedette ovviamente anche i vini.
Viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe: il Barolo e gli altri
Ovvero, pare superfluo dirlo, dolcetto, barolo e barbaresco, i blasonati figli di vigneti talmente coccolati da parere gioielli sparpagliati come ornamenti ad ingentilire le colline. Il risultato è affascinante per lo sguardo di chi passa ma il bello è che tanta grazia e passione finiscono nelle bottiglie. Per chi assaggia la meraviglia raddoppia e permette di ritrovare le mille sfumature di questo pezzo di Piemonte. Che rivela tanti volti diversi. Cosi il dolcetto di Dogliani sarà estremamente diverso da ogni altro dolcetto ma anche all’interno della stessa zona – parliamo di pochi chilometri di distanza – sapori e profumi esprimeranno sfumature differenti. Che sia il terreno, il clima, l’esposizione al sole o la mano di chi lavora poco conta per noi. Quello che è bello fare è cercare di cogliere il maliardo balletto delle differenze.
Sfumature che oggi fanno esplodere il sempre più fiorente turismo del vino che porta tanta gente qui per un viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe ma che non basta a fare dimenticare che qui, in un passato non troppo lontano, si faceva una vita grama di tanta fatica e pochi soldi, di lunghe ore di lavoro e fame arcigna. Quella che Beppe Fenoglio, un altro celebre autore di casa, raccontò in una sola parola: la malora.
Erano gli anni in cui il vino era più che altro un liquido alimento e in cui la polenta era monotono pasto quotidiano per la gente dei campi che poteva contare, in alternativa, solo su minestrone e bagna cauda. Ora, per molti, questi piatti sono oggetto di compiaciuta ricerca gastronomica tanto che il peperone quadrato d’Asti e il cardo gobbo si sono trasformati, loro malgrado, in presidi da tutelare. Ma per i parsimoniosi langhetti di un tempo erano piuttosto l’unica rustica pietanza disponibile: perché si trovava nell’orto mentre la sola aggiunta erano le acciughe che arrivavano dalla Liguria: i cartunè, ovvero i carrettieri, portavano verso il mare il vino e riportavano indietro il pesce sotto sale. Per un rapporto antichissimo che seguiva le vie del sale aperte già ai tempi dei Romani.
Poi, grazie al cielo, tutto è cambiato – a parte la luna che resta sempre quella. I vini hanno conquistato il blasone delle guide e le tavole del mondo che conta, il tartufo bianco d’Alba va all’asta come se fosse un quadro di Van Gogh – tra l’altro spesso le quotazioni tra i due non sono distanti- e un piatto di tajarin – magari con una sontuosa grattata di «trifula» – non è più prelibatezza esclusiva per il giorno di festa.
Viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe: i piatti della tradizione
«Oggi la cucina delle Langhe è molto ricca anche se, pare un paradosso, non nasce da materie prime in origine preziose», spiegano gli esperti e gli appassionati. «Il risultato sono piatti estremamente riconoscibili e tra questi spiccano ancora oggi, per importanza e carattere, le paste ripiene e le carni».
Insomma: non solo vermigli calici panciuti colmi di nebbiolo o tartufi bianchi profumati d’autunno. Perché forse è meno noto ma da queste parte resiste un culto assai laico e terragno ma altrettanto radicato che, come tutti i culti, ha suoi rituali e i suoi officianti. Gli stessi che in un alba di gelo di fine dicembre si ritrovano col tabarro addosso per celebrare il bue grasso. No, non suoni irriguardoso: chi non crede deve solo salire a Carrù l’ultimo giovedì prima di Natale per un viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe e per capire cosa sia la Fiera dedicata a questi monumentali bovini. La razza è la pura piemontese, la stazza delle bestie evoca Suv a quattro ruote motrici e l’affezione della gente è da finale di Champions. Il tutto nella surreale oscurità prima dell’alba quando i ciclopici buoi vengono scaricati tra bruma e muggiti nella piazza del paese che trattiene il fiato. «Non si può capire se non si è gente di Langa», allarga le braccia uno dei tanti che alle 6 del mattino è già li, bastone di legno in pugno e cappello calato sugli occhi. A soppesare con lo sguardo del conoscitore quale sia il più bel bue da coscia del contado.
«I buoi anticamente erano usati per il lavoro e solo a fine carriera venivano macellati. Oggi, ovviamente non è più così ma resiste l’abitudine di allevarli per la carne – spiega uno dei macellai che si aggirano per la fiera, che nel 2010 ha celebrato i 100 anni anche se pare abbia addirittura origini mediovali, a riprova di una tradizione che non si è persa neppure nei distratti giorni nostri. Non foss’altro per la prelibatezza di quelle carni destinate ai bolliti e a pantagrueliche costate. E davvero pare difficile immaginare una più saporita conclusione sulle tavole di una onorata carriera nei campi.
Viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe: la sagra di Carrù
«Un tempo, nel giorno della fiera, si arrivava a Carrù a piedi, o al massimo sui carri, dopo avere viaggiato tutta la notte. Per questo per scaldarsi si beveva una tazza di brodo e si faceva colazione col bollito», svelano i camerieri delle osterie nel centro del paese che da appena dopo l’alba sono tutti esauriti, zeppi di curiosi e langhetti che brindano col dolcetto e si godono lesso, testina, gallina e cotechino ovviamente abbinati a «bagnet ross» e «bagnet verd». Per chi non si voglia negare nulla non manca anche la salsa al rafano. Sarà lo suggestione dell’ambiente, il freddo della levataccia o i profumi che filtrano dalla cucina: ma al momento giusto l‘istintiva diffidenza per una colazione così estrema lascia il posto ad un sano appetito.
D’altra parte anche questo è un tuffo in una tradizione che forse, al di là dei panorami da ammirare in un viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe, è la vera grande ricchezza di una terra che per secoli ha dovuto fare i conti con scaramucce astiose, guerre di confine e sfruttamento da parte di una nobiltà distaccata e esosa. Tanto che ai tempi di Napoleone ci fu da queste parti chi si innamorò delle idee di libertà che arrivavano da oltre le montagne. Poi si tornò al Piemonte sabaudo ma la fatica del vivere restò quella. Abbinata ad una saporita cultura contadina che ancora si respira guardando le proposte dei ristoranti che coraggiosamente in alcuni casi si ostinano a proporre il menù: ovvero una decina di piatti dall’antipasto al dolce che vengono serviti in sequenza.
Un pranzo che diventerebbe coraggiosa scelta esistenziale altrove da qui, lontano da questi campi ordinati dove i borghi resistono appollaiati sulle cime delle colline, dove le strade hanno acciottolati sonori e colori caldi di mattoni mentre i vigneti sono allineati come eserciti ben addestrati ma con le foglie. Ben radicati figli di un sapere antico. Che sa anche trasformarsi in sapore. Stiamo parlando di una di quelle scorpacciate bonarie – qui si chiama «merenda sinoira» – che iniziavano al pomeriggio e finivano chissà quando e che spiegano, almeno un po’, perché ancora oggi tanti scelgano queste terre per un viaggio goloso, alla ricerca di una anima che non deve essere perduta. Soprattutto quando permette di assaggiare ricette che sono patrimonio strettamente locale. Che altrove si ignora. O peggio si trascura.
Non solo consuetudini però, ma soprattutto affetto come quella di Luigi Einaudi, il secondo presidente della Repubblica. La sua famiglia, per traversie economiche, aveva dovuto vendere i possedimenti per permettergli di studiare e lui, appena ne ebbe la possibilità, ricomprò le terre e i vigneti, rimise in sesto le tenute ampliandole. E le ricomprò proprio qui, nella zona forse allora meno celebrata delle Langhe ma nei paesi dove era nato, a riprova di un legame speciale che è proprio di questa gente, abbarbicata a queste dolci colline e a questi appezzamenti squadrati.
Forse, come spesso accade è il caso o forse, viene da pensare, il merito è davvero della luna. In certe sere di mezzo inverno e quasi primavera di cielo sereno, quando lo sguardo sorvola le colline durante un viaggio nella cucina e nei sapori delle Langhe, pare davvero essere straordinariamente vicina. E sembra essere sempre sul punto di sussurrare un segreto fondamentale.
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