Britt, a piedi nudi e avvolta in pashmine, non ha smesso di ballare fino a che il sole non è precipitato dietro il Nag Pahar, il Monte del Serpente, nel Rajasthan. Solo quando il buio ha infine incappucciato il lago, ha sancito col tono profetico dei suoi 24 anni e la voce nasale del natio Ontario: «Oggi è un giorno speciale. Il sole mi ha parlato». Il sole è quello che illumina Pushkar, cuore del Rajasthan, città sorta nel luogo dove al dio Brahma cadde di mano un fiore: i petali, precipitando, crearono un lago – uno dei luoghi più sacri dell’India – in cui si specchiano decine di templi e dove i fedeli indù vanno a bagnarsi. Come a Kolkata, anche se con molte differenze. Ecco perché un viaggio in Rajasthan può, o forse deve, partire da qui.

viaggio in Rajasthan

Proprio come ha fatto Britt e tanti come lei, cercando il senso di una religione che Pier Paolo Pasolini definì «in apparenza astratta e filosofica, mentre, in realtà, è totalmente pratica: un modo di vivere». Vero. Qui, e il viaggio  in Rajasthan ve lo farà comprendere,  ogni credo è materia che si tocca, regola la vita, scandisce l’agire. Tanto che per raggiungere il lago bisogna attraversare un check point improvvisato e promettere solennemente: «Con me non ho nulla di impuro. Né alcol, né droghe, uova e soprattutto carne macellata. E mi asterrò anche dal sesso». Una stravaganza? Per niente. Almeno a notare il viavai di occidentali di ogni età che in questa terra sterminata, splendida e poverissima, scelgono di fare sosta sui ghat – le scalinate – dello stagno sacro a Brahma. Cercando nel sole, nella meditazione o in una scrostata yoga house, la risposta a chissà quali perché.

Una tentazione che si insinua appena lasciata Delhi: per molti è il primo assaggio di India. La sensazione è che ogni metro possa anche essere l’ultimo. Il traffico del Rajasthan è un fiume in piena. Auto, camion, risciò, carretti, moto e animali: tutto scorre. Non però nello stesso senso, lungo una strada che ha cinque corsie anche se non ne basterebbero 100 in questa città grande come un mondo, dove la vita non si spegne mai. Ben quindici milioni di anime in perenne movimento. Meglio, allora, puntare a ovest, verso il deserto. Ma anche qui, sprofondando nella regione di Shekhawati, si continua a sperimentare la stravagante idea locale di viabilità del viaggio in Rajasthan. Che prevede anche il dromedario come motore. Il numero di corsie varia senza preavviso, la segnaletica è un’illusione e a ogni gruppo di baracche l’asfalto diventa un rivolo. Anche i mezzi di trasporto, poi, sono elastici: se si è in tanti si viaggia in piedi sui portelloni o seduti sui tetti. A complicare il tutto mucche distratte e frotte di pellegrini appiedati. Ma d’altra parte questo è un viaggio in Rajasthan: non potrebbe essere diverso.

In fondo, un tempo, da qui passava la mitica Via della Seta: e a Mandawa, villaggio sperso nell’ocra del deserto di Thar, sulle mura policrome dei palazzi – le mitiche havelis costruite dai commercianti Marwari – sono rappresentate le scene di un mondo perduto popolato di mercanti, condottieri e carovane. Loro viaggiavano verso l’ultimo orizzonte. Oggi invece, all’ombra del forte dalle mura sbrecciate, i mercati sono un catalogo di grida e colori. Il loro cicaleggiare si spegne solo al tramonto. A sera, infine, dopo sette ore di buche sull’utilitaria Tata presa a noleggio, Bikaner ci dà il benvenuto. Dormire nel Lallgarh Palace, il palazzo del maharaja, ci riporta ai fasti dell’epoca coloniale, mentre una passeggiata nell’antico centro regala suggestioni da esploratori. Il vero brivido, però, si prova qualche chilometro più in là, a Deshnoke, dove coppie di devoti neo sposi fanno la fila per entrare nel Karni Mata, il tempio dei topi. Qui, e solo qui al mondo, gli dèi sono vivi e hanno la coda. Il tempio ospita, infatti, migliaia di ratti adorati e viziati dai fedeli con latte e polpette dolci. I roditori, sfacciati sino all’impudenza, salgono persino sui piedi della gente: nell’edificio si deve entrare scalzi e a pestare un dio si rischia grosso. Chi, invece, scorge un topo albino avrà un bonus di buona sorte per gli anni a venire.

Rajastan, Bikaner tempio dei topi

Viaggio in Rajasthan, verso la città d’oro

Guizzanti manguste e timide gazzelle attraversano all’improvviso la strada, mentre proseguiamo il cammino verso Jaisalmer. Le guide la chiamano la “città d’oro”, i poemi epici come il Mahabharata ne decantano la bellezza. A chi arriva oggi, il forte sembra il castello di sabbia di un gigante giocherellone. Intorno non c’è nulla: steppa sabbiosa, caldo afoso e jet da guerra che pattugliano il vicino confine con il Pakistan. Nel labirinto di strade che avviluppa la rocca, invece, sta una sorpresa dopo l’altra: piccoli ristoranti, alberghi affacciati sul deserto e il brillare di tessuti tempestati di specchi. Se le Mille e una notte dovessero traslocare, questo sarebbe l’indirizzo giusto. A febbraio la città si scatena per il Festival del Deserto, nel resto dell’anno il bello è circumnavigare i bastioni immersi nel silenzio, sbirciare i cortili dei palazzi dei mercanti e farsi accarezzare dal vento. E quando fa buio, dall’alto delle mura, le stelle sembrano a portata di mano. Ma l’oro soltanto per descrivere il viaggio in Rajasthan, non basta. Serve di più. Occorre ritornare indietro di 280 chilometri, fino a Jodhpur, la “città blu”.

rajasthan la città bluI colori del viaggio in  Rajasthan

Anche qui troviamo ad attenderci mura poderose e una vista che ammalia. Ma il colore, pur in mezzo al deserto, è quello del mare. Una distesa di muri e tetti piatti dipinti di azzurro intenso: un tempo le sfumature accese nobilitavano solo le case bramini, poi la moda ha preso piede. La città di Jodhpur è dominata dal forte di Meherangarh. Il maharaja ancora ci abita, le mura quattrocentesche sono intatte. Oltre i cortili, sotto gli inoffensivi cannoni, le onnipresenti mucche ruminano nei vicoli contorti che portano alle havelis (residenze private) degli antichi mercanti e alle cisterne per l’acqua. La notte, sotto i baldacchini, si dimentica anche il mormorio della strada e i cani che ululano alla luna alta nel cielo. E il viaggio in Rajasthan sconfina nel sogno.

Rajasthan, tempio

La Venezia del nostro viaggio in Rajasthan

Udaipur ci attende 250 chilometri più a sud, il viaggio nel cuore del Rajasthan prosegue. Meglio non dare troppo credito alla definizione di “Venezia dell’Oriente”. Questa città ha, sì, i piedi in ammollo in un lago per metà artificiale, ma con i canali e i campielli di casa nostra non ha nulla in comune. Non per questo però si rimane delusi. Anzi. Perché Venezia, in fondo, ha costruito su quello che aveva: palafitte e fango. Qui, invece, un coraggioso maharaja ha progettato un sogno dal nulla. È il Jag Mandir, il palazzo giardino. Sta su un’isoletta nel lago Pichola e non si risparmia nessuno sfarzo: roseti, palme, fiori di loto, piscine e marmi. C’è pure una terrazza su colonne. Chi lo frequenta – ora è un hotel di gran lusso – ha la sensazione di poter dare del tu ai maharaja ritratti sulle pareti. E se pure James Bond è venuto qui per usare la sua “licenza di uccidere” un motivo ci sarà. Ma una nuova tappa del viaggio si approssima: Jaipur, 350 chilometri più in là, ci reclama. Del Rajasthan è il capoluogo e come tale si è ritagliata un colore proprio: è la “città rosa”. In realtà, il colore fu scelto solo nel 1876 per accogliere il Principe di Galles in visita di cortesia. Evidentemente piacque, tanto che si usa tuttora per le abitazioni.

rajasthan, palazzo Hawa Mahal

Per il resto è il solito catalogo di tutto e del suo opposto: facce smagrite e baffi sotto i turbanti, donne avvolte nei sari color arcobaleno, palazzi traforati di pietra e fantasia. E poi rumori, mendicanti, palazzi e divi di Bollywood. Loro sorridono dai muri: in fondo le pubblicità in ogni parte del mondo si assomigliano. Un must see è l’Hawa Mahal (o Palazzo dei Venti), con le sue mille finestre e nicchie scavate nell’arenaria rossa della facciata. È proprio in questa città dominata dai Rajput, i signori del passato, sedicenti discendenti di sole e luna, che questa terra dà il meglio e si sublima, svelando la sua anima piena di poesia e visioni. Luogo di artisti. E di elefanti. Sono, infatti, questi bestioni truccati come soubrette ad attendere i visitatori ai piedi del Forte Amber, cittadella a 11 chilometri di distanza. In sella si possono risalire i tornanti di pietra del fortilizio. Una volta in cima, una delle prime soste è al tempio della dea Kali. Il suo sguardo si dice proteggesse i signori del Rajasthan in battaglia: a noi, chissà perché, appare assai poco amichevole. Ma per una divinità ostile ce n’è sempre una che sorride: è Parvati, moglie di Shiva e madre di Ganesh. In suo onore, alla fine di luglio  si celebra il Teej Festival, ovvero la festa del monsone. Le date variano di anno in anno, il copione no: per due giorni la statua della divinità sfila lungo le vie di Jaipur tra due ali di folla. Le donne sono in prima fila e sfoggiano gli abiti e i gioielli migliori. Intorno cibo, bancarelle, canti, balli e musica. E la preghiera, ripetuta da mille voci femminili, invoca salute per tutte e longevità per i mariti. Una promessa e una speranza di amore che rappresentano le fondamenta del più celebre monumento dell’India del nord: il Taj Mahal di Agra.

Rajasthan Taj Mahal

Politicamente sta appena fuori dal Rajasthan – nello Stato dell’Uttar Pradesh – ma non si può perdere. Non fosse altro che per rendere omaggio a questo simbolo di un amore che viaggia oltre il tempo. Annoverato fra le sette meraviglie del mondo moderno, il palazzo fu costruito dall’imperatore moghul Shah Jahan, nel 1632, in memoria della moglie preferita, bella da fare impallidire la luna, morta troppo presto. Per terminarlo occorsero ventidue anni e il sudore di almeno ventimila persone arrivate dall’Asia e dall’Europa – tra loro anche un italiano – oltre alle pietre più preziose di un continente che alle mezze misure non si è mai abituato. Lo capiamo anche noi allontanandoci da questo monumento all’amore perduto. In equilibrio su un risciò nei vicoli della città ripensiamo a quel sogno di marmo, ai mille colori intravisti, ai deserti e alle strade senza asfalto. Sommersi dai clacson ci chiediamo se qui davvero il sole del Rajasthan sappia parlare, come sosteneva la giovane Britt. O, piuttosto, se siamo noi che non riusciamo a sentirlo.