Per un viaggio in Martinica scordatevi Harry Belafonte e Bob Marley, lasciate stare il reggae e le nostalgie del calypso. Piuttosto ripassate la Marsigliese: potrebbe servirvi. Perché nonostante il cielo caraibico, le palme, il corallo e l’afa qui è il trionfo della “douce France“. Ovvero baguette sotto il braccio e antipasto di fois gras, “libertè-egalitè-fraternitè” sulle facciate dei municipi e brioche a colazione. La sola differenza è che l’eroe locale non è Napoleone, ma sua moglie Josephine. Dai ritratti nella sua casa-museo a Trois-Îlets non pare una gran bellezza: ma quei denti un po’ in fuori non le hanno impedito di dire au revoir a una desolata piantagione nel cuore della foresta. E insediarsi a Parigi nel palazzo delle Tuileries.

Viaggio in Martinica: la Francia oltre il mare

La stessa distanza – ovvio, non lo stesso destino imperiale – che aspetta chi oggi allaccia le cinture per un passaggio transatlantico dall’aeroporto di Parigi di  Orly e rotola fuori dal Boeing all’aeroporto di Fort de France. Servono dodici ore sospesi in volo per un viaggio in Martinica e un minuto per sbarcare. Alla porta degli arrivi dell’aeroporto nessuno ti scruta occhiuto il passaporto in cerca di timbri e visti. Qui, per un italiano, è facile arrivare proprio come in Costa Azzurra: la sola differenza è che il rum va di moda molto più del pastis. E che invece del pomposo “s’il vous plait”, per chiedere “per favore”, in creolo basta uno sbrigativo “suoplè“.

Il tempo risparmiato lo potrete dedicare a guardarvi intorno. E a cercare di capire come funzioni questo stravagante cocktail caraibico chiamato Martinica, mix mescolato non shakerato di quattrocentomila anime con pelli bianche, nere e così così, miscela di bandiere biancorosseblu e avocado, sabbie candide da catalogo di viaggi di nozze e strade tortuose come un passo alpino. Un altro imperdibile aperitivo locale, il ti-punch, prevede invece solo rum bianco, zucchero e una fetta di lime. Tutti e due, al primo sorso e allo stesso modo, ti tramortiscono con garbo.

Viaggio in Martinica

La baia di Fort de France

Un viaggio in Martinica quindi  conviene quindi iniziarlo dolcemente. E girare le spalle alla capitale che, senza smancerie, ti lascia in bocca un sentore di Marsiglia. Manca però la bouillabaisse; e il traffico è molto più indisciplinato. Negli occhi, mentre una barca taglia la baia di Fort de France diretta verso i paradisi dei vacanzieri, restano i colori delle bancarelle di place de la Savane, il parco affacciato sul mare, e la statua decapitata di Josephine Rose Tascher de la Pagerie: nei libri, per semplicità, è ricordata come signora Bonaparte. Alle sue spalle svaniscono le puntute simmetrie della biblioteca Schoelcher e della cattedrale dedicata a Saint-Louis. Tanto per cambiare anche qui si riconosce la mano di uno degli onnipresenti architetti della bottega di Gustave Eiffel. Si, quello della torre.

Viaggio in Martinica, le Antille in salsa francese

Una volta sbarcati, e prima di dedicarvi a scegliere in quale spiaggia sciogliervi al sole, prendetevi il lusso di brindare a un’isola molto francese costretta, suo malgrado, a dire “merci” a un italiano. Il solito Colombo fece il suo viaggio in Martinica nel 1502, dopo essersi già sorbito almeno quattro traversate dell’Atlantico. Forse fu il caso, forse la stanchezza: piantò una bandiera, fece un po’ di manfrine in onore della solita regina di Spagna e poco dopo, lestamente, se ne andò. E per un secolo i nativi restarono quieti a godersi quella che loro chiamavano romanticamente “l’isola dei fiori”. Poi fu la volta dei coloni arrivati dalla Francia e i fiori, almeno per i pacifici caribi locali, appassirono di colpo sotto le cannonate. In cambio sbocciarono piantagioni e mazzi di catene.

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L’eruzione nella Parigi delle Antille

Il risultato fu che nel 1660 gli indios erano schiavi e le foreste si erano trasformate in distese di canna da zucchero che, all’epoca, valeva quanto l’oro. Anche per questo Saint Pierre, quella che allora era la capitale dell’isola, era chiamata laParigi delle Antille“. Dicono le cronache che nell’800 qui si ammassavano favolose ricchezze, si stampavano quindici giornali, le dame in crinoline salivano su moderni tram e all’Operà si recitavano Racine e Molière. Le stesse cronache raccontano che tutto finì alle 8 e 20 dell’8 maggio del 1902.

In un minuto e mezzo il vulcano Pelèe eruttò di botto uccidendo trentamila persone. Si salvò solo Auguste Cyparis, un poveraccio che aveva preso a schiaffi il sindaco. A salvarlo la minuscola stanza senza finestre in cui era rinchiuso. Per contrappasso del sindaco non si trovò neppure il corpo. Mentre la sua cella la si vede ancora durante una struggente passeggiata nella città volonterosamente ricostruita. Anche se di parigino però restano solo le crepès che servono nei ristorantini affacciati sul mare.

Mare blu, sabbia nera

Tropicale invece, e quindi decisamente sfacciato, è il mare che bagna la parte nord dell’isola, dove le sabbie sono nere, souvenir delle intemperanze della lava. Alle spalle delle spiagge le foreste pluviali si mescolano ai giardini di orchidee mentre il monte Peleè, il vulcano immobile a 1300 metri, si fa la sciarpa con le nuvole. Dal 1902 non ha più fatto danni e adesso sulle sue pendenze ci sono persino i sentieri segnalati per chi un trekking se lo deve fare a tutti i costi. Anche alle Antille, anche durante un viaggio in Martinica.

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Alla scoperta delle spiagge

Non è un trekking ma una passeggiata da infradito quella che invece conduce a l’Anse Couleuvre, all’estremo nord, una delle spiagge più belle, e certamente peggio segnalate, dell’isola. O forse di tutti i Caraibi. Il risultato è che ci arrivi per caso e non vorresti più andare via. Tutto quello che sogni, in effetti, c’è: coreografie di palme inclinate come nell’origami di un gigante, acqua bassa e prevedibilmente blu, un ruscello con l’albero caduto a fare da ponte e lo sgusciare delle manguste indispettite tra la sfacciataggine dei fiori di anthurium e balisier. Non manca neppure un piccolo albergo senza insegna ma con un biliardo affacciato sul mare. Doversene andare significa rischiare overdose d’invidia per chi resta a godersi il tramonto.

Ma partire quando il sole è ancora alto, da queste parti, è saggezza obbligatoria: le strade prediligono la curva a gomito, i saliscendi evocano i toboga delle vie di San Francisco e il traffico intorno a Fort de France è, diremmo noi, da bollino rosso. Qui, evidentemente, è ferragosto tutti i giorni. E’ una sorpresa: ma il viaggio in Martinica c’è chi lo fa in coda. Ecco perché conviene prendersela comoda e abbandonare la sedicente autostrada che taglia in due l’isola, tra svincoli, rotatorie e centri commerciali, e rifugiarsi nell’interno.

I villaggi sulle colline

Tanto il mare resta a portata di sguardo e per il bagno, in Martinica,  c’è sempre tempo. Da lassù, a quasi 600 metri d’altezza, lungo la tortuosa Route de la Trace, seguendo stradine a strapiombo senza guardrail ma con le siepi fiorite, si attraversano placidi paesi di casette colorate con le strade quasi sempre deserte. Ma con le verande, irte di ventilatori, perennemente affollate. L’affannarsi delle nostre metropoli in questi villaggi di infinita estate suona sguaiato e fuori luogo come un paio di doposci. Tanto che diventa subito naturale seguire l’esempio di quelli che fumano immobili sulle sdraio e rallentare il ritmo.

Canna da zucchero e banane

Scendendo di nuovo verso la costa, su un ottovolante di asfalto crepato che fa beccheggiare le utilitarie a noleggio, ci si rituffa tra le grandi tenute: la canna da zucchero, nonostante la crisi, continua a essere coltivata anche se è inesorabile il declino rispetto ai tempi delle immense piantagioni. La Martinica non è più l’isola delle canne: per quello meglio guardare più a nord, verso la Jamaica. Resistono invece le distese di banane: la sorpresa è scoprire che i caschi in maturazione vengono avvolti in brutti sacchetti di plastica blu per proteggerli in attesa del raccolto. I frutti incelophanati ancora sulle piante sembrano signore in fila per la tinta dal parrucchiere. E il dettaglio uccide la poesia.

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Viaggio in Martinica, dove il rum è nobiltà

Quella invece resiste quando ci si infila a visitare le distillerie del mitico rum di questa terra. Anche la fierezza e la grandeur hanno i loro gradi: in qualche caso alcolici. Qui si sfiorano i 50. D’altra parte su queste colline è nato, e ancora si produce, il rum agricolo, derivato prodigioso dal puro succo di canna da zucchero che nulla ha da spartire con la melassa del rum industriale. Detta così potrebbe apparire una sfumatura da iniziati: quando l’avrete nel bicchiere capirete che la distanza è quella che corre tra l’alta moda e il prêt à porter.

L’eleganza è fatta di dettagli che fanno la differenza. Solo che qui poi gira la testa. Clement, La Mauny, Bally, Trois Rivieres: questi sono alcuni dei nomi più celebrati mentre vistosi cartelli lungo le strade invitano a visitare le testarde distillerie ancora attive. Dentro le tenute, tra tappeti d’erba pettinata, botti di rovere e macchinari di archeologia industriale invecchia il nettare ambrato. Vuole la tradizione che ad ogni momento della giornata corrisponda un tipo di rum. Dopo la passeggiata tra le botti, comunque, tutti i produttori propongono bicchierini gratis e bottiglie in vendita. Quale che sia l’ora durante un viaggio in Martinica siate filologici: assaggiate tutto. Ma poi fate pari o dispari per scegliere chi guiderà al ritorno

 Lungo le strade, di tanto in tanto, si incrocia un rasta che cammina molleggiato diretto chissà dove lo conduca il suo sguardo spiritato. I capelli da medusa sono strangolati nella lana ma questa non è terra da reggae. Qui, come genere musicale, regna lo zouk che tradotto a spanne dal creolo significa “fare festa“. Non è un caso: ma anche la vena rivoluzionaria di Marley  in Martinica finirebbe per annacquarsi in un party senza fine e senza rabbia sulla spiaggia.

Viaggio in Martinica, in spiaggia è sempre festa

Uno di quelli che non si possono evitare sulla sabbia del week end a La Saline, una tre chilometri abbondanti di rena bianca, acqua azzurra, palme e luoghi comuni. I fotografi dei cataloghi scattano e ringraziano. Non solo loro però: la domenica è il giorno del Signore. E qui tutti, ma proprio tutti, gli abitanti della Martinica si ritrovano per onorare il fine settimana.

Sotto le palme, e a filo dell’onda, convivono estenuanti sfide a pallone e coppiette in apnea da bacio, mostruose griglie fumanti e scorci da paradiso, musiche sparate da stereo ciclopici e il silenzio delle candide saline: si chiamano Savane de la Pietrification ma nonostante il nome la vita non manca. La gente del posto arriva con ogni mezzo e le auto in sosta si incastrano come mattoncini lego. Le famiglie più ricche, o solo più numerose, non disdegnano furgoni o bus. D’altra parte lo spazio per le vettovaglie è importante più di quello per gli invitati. E le bottiglie di rum devono avere il posto d’onore.

Feste in spiaggia e lagune

Per fortuna però, per chi voglia rituffarsi nel silenzio, basta una passeggiata di nemmeno dieci minuti per ritrovarsi soli, con sullo sfondo la laguna tra il goffo balletto di uccelli trampolieri e sbuffi d’onde in distanza. Al largo, all’estremo sud dell’isola, il mar del Caribe e l’Atlantico si azzuffano. Da riva paiono due vecchi amici che fanno finta di litigare.

Col calare del sole il tramonto tropicale mantiene le promesse: prima dell’ora blu è il momento dell’ora arancio. L’unico difetto è che la palla di luce pare abbia fretta di tuffarsi nel mare. Fate come lei e godetevi un bagno: a quell’ora la sensazione di essere a bagnomaria negli acquerelli vi resterà dentro. Nello stesso momento da invisibili buchi nella sabbia escono anche i granchi: con gli occhi cattivi e un guscio rosso o blu da cartone animato aspettano stizziti che noi buffi bipedi ce ne andiamo per potere finalmente correre derapando sulla spiaggia.

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Viaggio in Martinica: i paesi dove regna il silenzio

Nei paesi della costa invece si accendono i lampioni: a Sainte Anne, graziosa e fiera della sua aria da colonia d‘oltremare, lungo la via principale la gente si ritrova per fare il pieno di birre Lorraine gelate e rum planteur. A Le Marin le centinaia di barche ormeggiate si colorano di lampadine e il traffico di tender e gommoni, da e per la riva, raggiunge una intensità da ora di punta.

A quell’ora, è bello fermarsi nel piccolo centro di Sainte Luce e aspettare di sedersi per la cena. Il fatto che la strada principale si chiami boulevard Kennedy non spaventi. Qui non ci sono vialoni multicorsie o megalocali da Ibiza: i bar hanno al massimo quattro tavoli piantati con malagrazia nella sabbia e due auto che si incrociano fanno già ingorgo.

In questo paese dalle case basse e dai molti sensi unici si potrebbe trascorrere una intera giornata seduti così ai tavolini di un caffè: guardando il lento passeggio. Ascoltando i convenevoli di chi s’incontra si può calcolare che ora s‘è fatta. Da ricordare soltanto che il classico “ca va?” francese qui diventa uno stravagante “ki manye?” mentre col sole a picco il silenzio regna assoluto. Dopo pranzo l’indole caraibica trionfa: sbirciate nei giardinetti sul retro delle case. Le amache che dondolano hanno sempre un ospite addormentato.

Viaggio in Martinica, chiesette e pirati

Risalendo verso la capitale la terra pare indecisa. Il risultato è una penisola che qualcuno, con molta fantasia, sostiene assomigli ad un profilo di donna addormentato. Alla base della lingua di terra il primo villaggio si chiama Le diamant.  I geologi dicono che si tratta di un antico vulcano spento che assomiglia al Vesuvio. I marinai inglesi un pezzetto ancora conteso, e mai dimenticato, del regno di Sua Maestà in terra di Francia. I turisti, più semplicemente, durante un rilassante viaggio in Martinica lo trovano lo scenario perfetto per ritratti in piena luce. E lungo la strada che zigzaga vorticosa c’è pure un baracchino che vende souvenir da pochi euro e succhi di tropicale dolcezza.

Quando il caldo e il sole iniziano a scemare nelle chiesette dell’isola si spalancano le porte: le donne di Les Anses d’Arlet scuotono la sabbia dai piedi prima di entrare nella grazia policroma dell’eglise Saint-Henri mentre a Le Marin, devotamente, si coprono i capelli coi foulard e s’inginocchiano davanti all’Ultima cena sull’altare di Saint-Etienne. Appena sopraelevata com’è, affacciata sulla distesa del porto, non stona per nulla che il campanile sembri un faro.

Il pirata delle lampade

Un faro vero, invece, uno dei quattro residui dell’isola, svetta in cima alla penisola de La Caravelle, un dito di terra e canna da zucchero proteso a fare solletico all’oceano. Questa, l’orientale, è la costa più ruvida, meno turistica, ostica di scogliere e baie deserte. E  qui, nel 1750, iniziò a spadroneggiare Pierre Dubuc, uno spregiudicato piantatore di origine francese che per prima cosa si comprò il blasone. Poi si costruì un castello e furbescamente addobbò di lampade gli scogli della baia. Le navi, illuse da quelle luci, si incagliavano e il poco nobile pirata per decenni le depredò rivendendo merci e schiavi agli inglesi, che in teoria, erano anche nemici. Allora come oggi, pure nel Caribe, il denaro non ha odore.

La danza nel vento dei surf

Hanno invece i colori del vento i kite e i windsurf che si inseguono lungo la costa est, in quella striscia di costa ancora spopolata ma che forse diventerà il futuro del turismo dell’isola la prossima destinazione per un viaggio in Martinica. Per il momento però sotto le palme si rilassano solo biondi ragazzoni coi capelli schiariti mentre le piccole vele, anche quelle marchiate coi marchi dei rum, si fanno strattonare verso il margine della barriera, verso l‘oceano. Quando il sole picchia duro, nel pomeriggio, il mare diventa una tavolozza impressionista.

Ma in fondo, forse pochi lo sanno, proprio qui, a Anse Turin, nel 1887 Paul Gauguin, allora inquieto e sconosciuto pittore, abitò quattro mesi prima di inseguire i suoi fantasmi nelle terre della Polinesia nel Pacifico che gli avrebbe dato la fama. Del suo passaggio restano una volenterosa piccola mostra e le copie di alcuni quadri oltre ad una manciata di citazioni nelle lettere. “Cerco il paradiso – scrisse alla moglie – e mi porto dietro i colori“. I suoi, spennellati nei quadri, ora sono in cornice in mezzo mondo. Per contenere quelli della Martinica un museo non basta.