Più che l’isola che non c’è, Aruba è l’isola che non t’aspetti. Pregusti le palme e incespichi nei cactus, immagini sinuosi mulatti dalle movenze simil calipso e incappi in efebi biondi come nei polder di Rotterdam. E su tutti, assai poco caraibici troneggiano sua maestà Beatrix Wilhelmina e l’austero George Washington virato in verde. Lei, la sovrana, immobile e benedicente sulle pareti degli uffici pubblici, a ricordare che qui, nonostante i 28 gradi all’ombra, siamo nei Paesi Bassi. L’altro, stropicciato e molto più prosaico, passa invece di mano in mano tra turisti e nativi dell’ isola di Aruba. A riprova che il mondo sarà anche grande. Ma il dollaro resta il suo profeta.

D’altra parte l’isola di Aruba, primadonna delle Antille olandesi con Curaçao  e Bonaire, pancia nel Mar dei Caraibi e posteriore sventolato in faccia al Venezuela, si è abituata da subito a stupire chi sbarca. E non è una colpa. È destino. Quando nel 1499 Alonso de Ojeda si fermò qui, alla guida dei soliti voraci predoni venuti dalla Spagna si guardò intorno e intuì di avere sbagliato rotta: invece che palazzi d’oro e pietre preziose pronta consegna mise il piede sulle spine dei kadushi, gli enormi cactus Texas-style, e fece la conoscenza con gli Arawak, mansueti e squattrinati indios, cui ben presto restituì la libertà: «Restateci voi su quest’isola inutile», pare abbia sibilato l’indignato hidalgo riprendendo il largo.

Senza immaginare che qualche secolo dopo, nello stesso punto, dalle ciclopiche navi da crociera, sarebbero sciamate matrone del Maine e dell’Ontario attratte da altro oro. Magari d’importazione ma, questo è quello che conta davvero, duty free.

isola di Aruba

L’isola di Aruba: colori pastello e mare blu

La capitale dell’isola di Aruba,  Oranjestad, da questo punto di vista, pare una via di mezzo tra il sogno proibito di una gazza ladra e il quartiere ebraico di Anversa: le vetrine sono un trionfo di carati, il giallo e l’argento spronano al baratto col platino della carte di credito. E se ci si aggiungono le case pitturate con gli acquerelli che gareggiano con il blu del cielo è facile capire perché l’ex isola inutile abbia cambiato slogan. E, come sanciscono le targhe delle auto, sia diventata «un’isola felice».

Una gioia di vivere però poco sguaiata. Caraibica ma non troppo. Il centro della capitale è una manciata di case color confetto invischiate in cervellotici divieti di svolta, la salsa e il merengue rimbombano sfacciate solo dopo il tramonto mentre durante il giorno, quando il sole picchia duro, cioè sempre, il massimo del ritmo è quello delle infradito che sciabattano. Sovrastato dal ruggito delle Harley Davidson, qui più monumentali e numerose che a Milwaukee, mentre fanno tuonare i cilindri ai semafori. E in mancanza di un highway va bene pure un senso unico tra le case.

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Niente palme, solo cactus. E zoccoli olandesi

Dall’altro lato dell’isola di Aruba invece, nemmeno 30 chilometri di lunghezza e 9 di larghezza, più che delle selle di Easy Rider è il paradiso delle 4×4. Possibilmente a passo lungo, dato che i macigni delle mulattiere, perfidi, mirano giusto alla coppa dell’olio. E la Toyota a noleggio regala ai autisti della domenica brividi da rally Dakar. Sulla costa sud, all’ombra delle palme (sì, qualcuna c’è), gigioneggiano i mega hotel, piscine hollywoodiane e coccole da spa. E il mondo si divide tra chi ha il braccialetto dell’all inclusive e chi non ce l’ha.

Dall’altra parte, invece, tra i saliscendi del parco naturale di Arikok e lungo l’intera costa nord, è un catalogo ispido di madrepore miniate e menhir di piante grasse. E se non fosse per quel mare di un azzurro commovente che si incaponisce a spumeggiare sembrerebbe di essere volati nel New Mexico. Qui, accompagnati da paciosi ranger, enciclopedici e poliglotti, si può sperimentare un tour spinoso tra divi-divi, kwihi e hubada. Per noi sono solo cactus. Per i nativi dell’isola di Aruba un repertorio infinito di medicamenti e sapori. E come accade nella Bassa padana per il maiale, qui del cactus non si butta via nulla. Una scelta obbligata in una terra che, se non è ospitale oggi, figuriamoci come doveva essere un tempo.

Dalla Spagna all’Olanda. Ai turisti di oggi

Lo sanno anche i marinai arrivati dall’Olanda che nel 1636 presero il posto dei poco previdenti spagnoli e che tuttora, sia pure con legami elastici di autonomia un po’ cercata e un po’ no, sono i padroni di casa. La loro presenza si avverte qua e là, ibridata in salsa caraibica: sul lungomare di Oranjestad, buffe figurine che ricordano il marzapane e che paiono prese da piazza Dam sovrastano turisti impegnati a tracannare cocktail all’Iguana Jones o in uno degli altri bar di moda mentre in alcuni menu, frastornante sorpresa, a merenda, tra nachos d’importazione e gamberetti al cocco, spicca la torta di mele. S’intende servita calda. Di tulipani, per fortuna, non c’è traccia. Un mulino, invece, piuttosto stranito c’è.

Aruba, campi da golf e casinò

Qualche pagliuzza d’oro, in passato, è sbucata dalla terra: ha portato sogni presto evaporati al sole e un paio di miniere da tempo mestamente abbandonate: le uniche che si ostinano a frequentarle, nel silenzio torrido, sono le iguane che si scaldano lente sulle pietre dei vecchi muri. Ma tanto adesso l’oro, e tutto il resto, lo portano i turisti. Quelli che arrivano richiamati dai tre campi da golf, e in una lingua di terra così stretta e brulla il verde del green vale doppio, e quelli in cerca del brivido dei casinò.

In questo caso il verde dei tavoli è forse meno intenso ma è l’unico che brilla anche di notte. Poi locali sofisticati e bar ben riforniti per un pubblico in cerca di torpidi stordimenti dove miscelare l’autoctona birra Balashi e bionde d’importazione, sigari da Cuba e rum dalla Martinica. Con le costine di maiale ci si lecca le dita, con le parilladas si possono scegliere i vini cileni e il menu trilingue fa il resto.

L’unica fatica è imparare a capire come si dice «buon appetito» in papiamento, il buffo dialetto dell’isola. Ma gente che dice «Bonbiní!» per benvenuto, «Trankilo» per tutto a posto, «Kon ta bai» per come stai può solo fare sorridere. Certo è difficile trovarli antipatici. Per il resto è la torpida e comoda vita della vacanza con i piedi in ammollo. Tanto che, per vedere il fondo del mare, non si devono neppure indossare le pinne.

Basta scendere placidamente a 35 metri nel ventre dell’Atlantis, un sottomarino modello torpedone, con guida multilingue e colonna sonora in dolby surround, e fare le foto ai relitti di aerei affondati dall’uomo per attirare i pesci e chi li va a osservare. I pesci pappagallo invece, no, quelli sono veri. E pure curiosi.

isola di Aruba

Cactus e relitti. E comode immersioni

Te li vedi nuotare intorno, color miraggio, quando sguazzi sui reef più a portata di mano, lungo la sabbia candida degli isolotti a filo d’acqua, schierati sulla costa con bizzarri nomi a metà tra l’olandese lo spagnolo e il grammelot da catalogo: Palm, Barcadera, Skalaheim. Qualcuno di loro poi lo ritrovi che pinneggia tra le lamiere ossidate dell’Antilla, un cargo sacrificato ai tempi della guerra e ancora parcheggiato lì sul fondo, a nemmeno 15 metri dal pelo del mare.

Il picco di carico sbuca come una boa, fare snorkeling e giocare all’esploratore è un passatempo da ragazzi. E i dentini appuntiti dei barracuda in controluce sulla sabbia non sembrano neppure troppo minacciosi.

Il sud dell’isola: l’altra faccia di Aruba

Per cercare brividi allora conviene rimettere in moto la macchina, ma stavolta non servono le ridotte: una strada senza buche punta verso il sud dell’isola di Aruba dove giganteggia una sgraziata raffineria che, caso più unico che raro, vista al tramonto da una spiaggia che pare una piscina, diventa quasi bella. E le fiamme di gas che erompono dalle ciminiere finiscono per assomigliare a romantiche candele post moderne. Lì, intorno alle cisterne dello stabilimento, a partire dagli anni Venti, è nata una cittadina, San Nicolas che, un po’ compiaciuta, si vanta di rappresentare l’altra faccia di Aruba. Quella che ha il ghigno poco spaventoso dei figli dei figli dei pirati di un tempo.

Se Oranjestad è infatti tarata sui sogni griffati dei croceristi, e Luis Vuitton e Gucci colonizzano le vetrine, qui a sud dietro i vetri occhieggiano anche bellezze ambrate che ti guardano fisso, senza abbassare lo sguardo. E il brivido di seconda mano si mescola ai brindisi al bar di Charlie. Un bar che non è un locale: è un archetipo di esotismo caraibico. Davanti ai televisori che svelano i touch down dei giganti del football, burberi nativi e turisti curiosi si scolano birre mangiando gamberi piacevolmente agliati. L’alito non ne trarrà giovamento, ma le porzioni sono generose e il sapore che resta ha un retrogusto di nostalgia.

Un aperitivo al tramonto

Poi, magari verso il tramonto, è bello scendere ancora più a sud nell’ isola di Aruba, assecondare le intemperanze della costa e risalire l’isola. Oltre Baby Beach, dove disinvolti pellicani si tuffano come bombardieri col becco, la riva risale, abbandona la sabbia maliarda per la madrepora. E lo sciabordio della battigia cede al rombo delle onde. Davanti, oltre le nuvole, spicca la punta estrema di Curaçao, una delle tre sorelle di pietra che con Aruba e Bonaire formano l’arcipelago, dietro si ergono i soliti cactus.

Bordeggiando e dragando una brughiera color ocra si finisce per arrivare ad anfratti che, con il mare calmo, ricordano piscine. Poco più in là, a Boca Prins, un baretto volenteroso, sempre schiaffeggiato dagli alisei, offre il luogo perfetto per un aperitivo al tramonto. Qui non ci sono alberi ma muretti a secco, le dune bianche si inchinano in silenzio fino al blu ma per qualcuno è solo la sbrigativa sosta di un momento, prima di un ritorno affrettato agli hotel, ai buffet, alle palme e alle sfide alla roulette. Per altri, invece, sarà un momento semplice e perfetto di felicità. E Aruba, un tempo isola inutile e ora felice,  la sua definitiva rivincita.